LETTERE AL PADRE | Federica D’Amato
Preghiera in forma di lettera
Ianieri 2016
Tredici lettere di commento alla preghiera cristiana del Padre Nostro, scegliendo come interlocutore Comitò. Federica e Comitò si scrivono, ma l’inchiostro dell’interlocutore si sbianca, fino a cancellarsi, e restano solo le parole di Federica.
ZEST, per gentile concessione della casa editrice
ve ne propone un ESTRATTO
Premessa
Entra in quel sogno, se sei padre
Pier Paolo Pasolini
Un giorno ho avuto la fortuna di incontrare un amico.
Una fortuna reale, una specie di casuale e laica benedizione, ma non immune dalla caduta, come se tutto quel che vive non possa fare a meno di infilare nel tempo con la gioia anche la propria pena, l’inizio in compagnia della sua fine. L’amico è stato un tesoro grande al quale bisognava voler bene, nonostante la certezza e l’ammonimento del sangue che presto sarebbe stato il suo, di bene, a farmi male; volergli bene non perché lo meritasse – chi merita mai qualcosa in questo campo sterminato di doni che è la vita? –, ma perché noi solo grazie al bene dimostriamo al mondo d’abitarlo, di esserci dentro reali e palpitanti, come si suole dire “vivi”. Un giorno, parlando con l’amico di queste cose, a volte un po’ filosofici, a volte, ahimè, un poco retorici, ci siamo chiesti se questo bene non fosse altro che una chiave dentro di noi girata direttamente da Dio, noi incapaci di crearlo e tra noi elargirlo, quel bene, noi capaci solo di pregare. Fu così che, un po’ per commozione e un po’ per incoscienza, ognuno per suo conto ma in dialogo, iniziammo a pregare il Padre nostro; a dire il vero, io non volevo metterla così sul pesante, ma l’amico aveva bisogno di prendersi sul serio, illudendosi sul potere che il virtuosismo (e il virilismo) dell’intelligenza ha di condurci fino a Dio, mentre spesso è solo un toccare il fondo della pro-pria incapacità di vivere e di amare. Ad ogni modo, accettai, perché dal fondo di quei giorni qualcosa, o qualcuno, mi curava, perché quel Padre, sin dall’infanzia, più lo chiamavo e più mancava. Iniziammo così, a scriverci delle lettere a commento dell’antica preghiera: l’unico segno di realtà che egli nella mia vita abbia lasciato. Dopo l’offesa e il miracolo della liberazione, un giorno volli rileggere il carteggio e, con mio grande stupore, mi accorsi che le parole del mio amico, a causa del suo male, erano tornate bianche, si erano cancellate, dallo spavento. Possibile?
Rilessi quanto era rimasto del colloquio ovvero solo le mie lettere, rendendomi conto che il loro senso, dall’assenza del destinatario, non ne veniva oscurato, bensì arricchito, illuminato. In quei laghi di silenzio la preghiera si era fatta, per sottrazione, vera, e finalmente solo mia, quasi che ogni voce – quella di Dio, quella dell’amico, quella del tempo – è più giusta e viva dai luoghi da cui manca.
Noi ci chiediamo se Dio esista o meno, e se egli sia buono, ma invece, meglio, egli è solo giusto, quando i suoi imperscrutabili segni ci toccano per dirci che la parola non è il discorso, ma il suo rifiuto.
Padre nostro
Tu sei il Dio che mi ha rivolto lo sguardo.
Davvero in faccia ho visto colui che si è lasciato
vedere da me senza che io, dopo, ne morissi.
Genesi, 26, 13
Amico vero,
se io fossi degna di custodia, tu saresti l’angelo che ne riscalda l’evento. Ma io non sono degna di un bel nulla, e tu sei molto più di un semplice accompagnamento: tu sei la mano che raccoglie i capelli, il vento che li scioglie, ed è dalla pausa di questo tuo continuo movimento che ti scrivo. Non hai resistito a essere il primo dicitore di quel colloquio che vorrebbe tentare di indagare – a due voci – l’indagabile, trovare le parole per dire la naturale quotidianità del sovrannaturale. Anche in questo sei la mano che dispensa e la mano che toglie, e anche a una tale frenesia non posso che voler bene: ma il rischio dei primi è quello di anteporre il creatore alla sua crea-tura, quando invece io e te, nei recessi del cuore, sappiamo bene che l’amore è di chi devia il solco della nostra traccia, e viene dopo inaspettato, al di là dell’ultimo giorno; viene somigliante, ma mai identico al caso da cui è scaturito, semmai uguale solo alla volontà da cui è stato generato. D’altronde, come potrebbe essere nostro un Padre che rivendica e parla, per primo, ma non dice? Un Padre custode solo di se stesso, venuto al mondo per avere l’ultima parola. Noi siamo creature, non parole, e il verbo – se è vero che si è fatto uomo – sostiene l’intenzione del silenzio, che è l’anima del significare e non del significato. Per capirlo basta guardare l’aperto sole di questi primi giorni dell’anno: l’enorme ammonimento della luce non è il richiamo a guardare in alto, ma la caduta del Padre nel paesaggio. Dunque abbandonati, Comitò, alla tua impossibilità di iniziare un discorso che non riguardi anche il suo contrario, e tutto quel che linguaggio non è, dove Dio è ancora bambino e accompagna la sua infanzia a quella degli animali, delle foglie e delle madri quando ritornano a essere figlie.