LEZIONI DI FELICITÀ – Ilaria Gaspari
Esercizi filosofici per il buon uso della vita
Einaudi Super ET Opera viva – 2019
Che cosa succederebbe se di punto in bianco decidessimo di conoscere noi stessi al modo degli antichi Greci? E se per farlo ci scegliessimo per maestri Pitagora e Parmenide, Epitteto e Pirrone, Epicuro e Diogene? Potremmo scoprire che le scuole dell’antichità non hanno mai chiuso davvero – non finché penseremo alla felicità come a un destino da conquistarci. Attraverso la cronaca di sei settimane «filosofiche», ciascuna vissuta nel rispetto dei precetti di una diversa scuola, Ilaria Gaspari ci guida in un insolito esperimento esistenziale, a tratti serissimo, a tratti esilarante. Scopriremo cosí che piegandosi alle regole astruse del pitagorismo si può correggere la pigrizia patologica, mentre i paradossi di Zenone mettono a nudo certe strane contraddizioni nel modo in cui siamo abituati a considerare il ritmo della vita. E se essere epicurei non è cosí piacevole come sembra, il cinismo può regalare gioie inaspettate. Un esercizio di filosofia pratica che ci insegnerà a sentirci padroni dell’attimo che fugge.
Per concessione di autrice e case editrice vi proponiamo la lettura di un breve ESTRATTO
La felicità degli antichi
«È vano il discorso di quel filosofo che non curi
qualche male dell’animo umano». (Epicuro)
Ci fu un tempo in cui il mondo era molto piú giovane; la filosofia, allora, era un’invenzione nuova di zecca, nelle mani del primo dei Sette Saggi, il protofilosofo – Talete.
La leggenda vuole che una notte, mentre se ne andava a spasso con gli occhi fissi alle stelle senza badare a dove metteva i piedi, Talete sia inciampato e caduto in un pozzo. Purtroppo, nei paraggi si trovava una servetta di Tracia: lo vide finire a gambe all’aria e, guardandosi bene dal dargli una mano, si mise a ridere di lui che si affannava tanto a cercar di conoscere le cose del cielo, ma non vedeva affatto quelle che aveva davanti. Questo apologo cosí spiritoso – con la sua luna nel pozzo, la comicità involontaria del filosofo distratto, la sagacia della ragazza – ha avuto, nei secoli, un grande successo: non si perde occasione di raccontarlo, quando si cita Talete, e spesso viene sfruttato per rivendicare la superiorità del sano senso pratico sui ghiribizzi della speculazione pura.
Ma chi crede di trovare nell’aneddoto un buon appiglio per rinfacciare ai filosofi l’inutilità delle loro meditazioni farebbe bene a rintracciare il momento in cui la storiella comparve nella forma in cui la conosciamo, con Talete e la ragazza trace nei ruoli, rispettivamente, del professore distratto e della personcina semplice ma di solido buonsenso. Succede nel Teeteto, dialogo platonico in cui si riferisce una conversazione fra Socrate – è lui a raccontare la disavventura del sapiente nel pozzo, riprendendo il tema da una favola di Esopo in cui a inciampare era un astronomo vanitoso – e il giovane matematico Teeteto. La chiacchierata, secondo quel che rivela la cornice del dialogo, avrebbe avuto luogo qualche anno prima, alla vigilia della morte di Socrate. E questo è un dettaglio importante: perché sappiamo tutti – lo sappiamo noi, oggi, ma lo sapevano ancora meglio gli Ateniesi di allora – come sarebbe morto Socrate: in carcere, per decreto del caro, vecchio buonsenso dei suoi concittadini, che non volevano piú saperne di quel bizzarro incantatore e della sua filosofia, e temevano corrompesse i loro giovanotti infilandogli strani grilli nella testa.
Alla luce del tetro presagio della morte annunciata nella mise en abîme del dialogo, la figura del filosofo deriso si fonde con quella del filosofo ucciso. Per Socrate infatti la risata di chi non seppe (o non volle) capire il significato delle ricerche che conduceva, frugando fra le cose del mondo a caccia della verità, prese una nota atroce: e non è affatto ovvio, insinua Platone affidando proprio a lui il compito di raccontare di Talete, che le servette traci abbiano sempre ragione.
Ma spesso, e ancor piú spesso in periodi di cambiamento e di crisi come quello che stiamo vivendo, la voce del buonsenso si alza di un tono e si arroga il diritto di dire che la filosofia è perfettamente inutile, una mania da professoroni distratti che al primo ostacolo inciampano: perché mai dovremmo studiarla, se non serve a niente?