L’INCENERITORE
Racconto di Ilaria Grasso
Mio nonno era un muratore e la sua passione era quella di mettere piastrelle. Mio padre, invece, le collezionava ossessivamente e quando è morto nessuno sapeva cosa farsene di tutto quell’ammasso di ceramica. Fu per questo motivo che iniziai a studiare architettura, per utilizzare le mattonelle che mio padre aveva accumulato. Nella mia classe eccellevo. Non mi hanno mai bocciato a un esame ma le mattonelle di mio padre rimanevano lì nel garage di mio nonno e più passavano i giorni più non sapevo cosa farmene.
Feci una tesi su “Les Unitè d’Habitation di Le Courbousier” perché mi affascinavano le periferie. Ero nato in periferia e una casa in periferia era tutto ciò che avevo allora. Passò del tempo e dopo alcuni anni comprai una casa al centro di Torino, vicino al Museo Egizio. Quando mi fu commissionato il lavoro dell’inceneritore avevo costruito solo case ma decisi di accettare il lavoro. Mio padre era morto da poco e l’avevamo dovuto cremare: questo era nelle sue volontà. Interpretai tutto come un segno del destino. Dunque accettai di buon grado. Nel progetto originario io e la mia squadra avremmo dovuto realizzare l’inceneritore in cemento e metallo ma io sono sempre stato contrario al cemento. Le Courbusier era per me una fede politica, un buon modo per rendere il mondo paritario.
Io il cemento non l’ho mai amato ma arriva un momento della vita di ognuno in cui bisogna fare i conti con il passato e anche con gli ideali. Non tutti vanno bruciati. Alcuni vanno tenuti come le mattonelle che mio padre accumulava. Ma vanno anche utilizzati, altrimenti è tutto inutile. Mi venne, così in mente, di ricoprire l’inceneritore con le mattonelle di mio padre. Calcolai le superfici ed erano esatte per tutte le mattonelle che avevo. I muratori le avrebbero ridotte in frammenti e avrebbero rivestito il cemento dell’inceneritore. Mi studiai la mappa di Torino e identificai il luogo dove edificare l’inceneritore. Pensai a Corso Moncalieri, a due passi dalla mia casa attuale. In genere gli inceneritori li costruiscono in periferia ma io volevo con me mio padre e la periferia. Mi feci coraggio e proposi la parte di Corso Moncalieri in prossimità di San Salvario. Avrei visto la torre dell’inceneritore dalla finestra di casa mia e me lo sarei fatto bastare.
Io e la mia squadra ci mettemmo al lavoro e in due anni di tempo realizzammo tutto. Chiamai l’inceneritore Unitè de Carburant come omaggio al mio maestro, ma anche come provocazione. I francesi avevano occupato anni addietro Torino e avevano stravolto la toponomastica della città e a me questa cosa non era mai andata giù.
I giornali e i media facevano un gran parlare della mia Unitè de Carburant ma a me ciò che dicevano non è mai interessato. Non avevo sogni di gloria, volevo solo avere vicino ancora le mattonelle e respirare l’aria della mia infanzia.
Alla fine di ogni progetto era mia abitudine prendere i contatti di chi avrebbe beneficiato delle mie costruzioni. Andavo spesso a casa dei proprietari delle villette a schiera che avevo costruito in Brianza o a Roma, al Corviale. Alcuni mi dicevano di sentirsi a casa, altri in prigione e a me questa cosa dava sempre da pensare a come costruire meglio le case future. Ma stavolta non avevo alcun riferimento. Nessuno è realmente proprietario di un posto di lavoro anche se si sta più lì che a casa. In ogni modo volevo comunque che fosse un buon posto dove stare. Dovevo solo conoscere qualcuno che lavorasse all’Unitè per cui l’unica alternativa era stare attento alle graduatorie dei concorsi di assunzione dell’inceneritore, almeno per conoscere i nomi. Poi sarei passato alla fase due cioè come agganciare il mio uomo.
I giorni a seguire dell’inaugurazione dell’inceneritore ero inquieto. Mai prima di allora avevo lasciato una mia costruzione sola e disabitata. La situazione migliorò solo quando su La Stampa apparve la notizia della messa in uso dell’Unitè de Carburant. Non amavo molto i giornali ma li leggevo sempre perché qualcosa di buono o di vero, in fondo in fondo c’è sempre. Anche stavolta non mi sbagliai.
Dopo qualche mese iniziai a presentarmi di fronte ai cancelli dell’inceneritore. Mi mettevo dietro il grande platano sul spiazzale e osservavo per scegliere qualcuno che mi consentisse di capire com’era la vita del posto che avevo progettato. Passavano i giorni e nessun volto mi ispirava. Stavo per perdere le speranze quando adocchiai un giacchetto verde militare, un paio di Converse che camminavano svelte e nelle orecchie cuffiette fuxia. In realtà, ciò che mi balzò all’occhio, non fu esattamente quel colore sgargiante, ma il fatto che fosse l’unico a cantare a voce alta. Riuscii a capire cosa facesse. Lui, l’uomo dalle cuffiette fuxia, selezionava rifiuti prima della combustione.
Come faceva ad essere allegro uno che tutti i giorni metteva le mani nello schifo degli altri? Era l’unico pensiero che, in quei giorni, avevo in mente. Ma nel frattempo mi ero tranquillizzato, perché avevo trovato finalmente il mio interlocutore per scoprire quale fosse la vita all’interno dell’Unitè de Carburant.
Ho i miei metodi per avvicinare e così feci con quello che di lì a poco sarebbe diventato mio amico.
Lui si chiamava Gerard e aveva origini francesi. Sua mamma era tunisina, capitata in Francia perché il padre era emigrato lì. Il padre di Gerard, invece, era di Versailles, a pochi km da Parigi. Gerard si trovava in Italia perché aveva vinto una borsa di studio in medicina legale. Rimase in dipartimento ma poi il concorso come professore ordinario lo vinse qualcun altro. Lui decise comunque di rimanere a Torino e quando uscì il bando di concorso pensò che in fondo vivisezionare morti non è poi così differente che smistare rifiuti. I titoli di studio più la conoscenza di tre lingue fecero il resto. Gerard fu dunque assunto come “smistatore dei rifiuti” presso Unitè de Carburant di Corso Moncalieri.
Lo agganciai all’inizio senza dirgli nulla circa la mia professione e la mia identità, come ero solito fare, in questi casi. Utilizzai il cane di una amica. Gerard aveva infatti un bastardino che faceva uscire a orari regolari. Dovevo farmi solo trovare nel posto giusto, al momento giusto.
Io e il levriero di Carla uscivamo, dunque, per andare al parco sempre alla stessa ora, la stessa anche di Gerard. Come avevo previsto, i cani fecero amicizia e noi con loro!
Finalmente potevo parlare con lui e sapere cosa succedeva all’interno dell’Unitè. Gerard mi raccontò con dovizia di particolari della necessità di suddividere in fazzoletti sporchi in base allo sporco che avevano assorbito. Ma ciò non avveniva mai. Lui mi spiegò che i fazzoletti sono fatti di carta e non hanno bisogno di essere bruciati per non fare del male alla natura. Ciò che rende il fazzoletto un rifiuto, in realtà è lo sporco. Mi raccontò della quantità di tipologie di sostanze che rendono insostenibile lo smaltimento dei rifiuti.
Mi parlò della clinica psichiatrica, dalla quale arrivavano prevalentemente fazzoletti sporchi di vomito autoindotto e di diarrea per il litio assunto in dosi non ancora “tarate” sul malato.
D’estate la quantità dei rifiuti della clinica aumentava perché il caldo acuiva i disturbi psichiatrici e la quantità di farmaci assunti era maggiore. Mi spiegò che se i parenti dei malati fossero andati in ferie, lasciandoli a casa soli, probabilmente sarebbero morti.
D’estate i rifiuti aumentavano e di conseguenza anche la quantità dei fazzoletti e la mole di lavoro di Gerard.
Ci sono allora i fazzoletti di bimbi macchiati di cioccolato o di lacrime di adolescenti in partenza forzata dai villaggi turistici o dai campi scout. Gerard mi raccontò anche che la sua vicina di casa d’estate produce una gran quantità di fazzoletti sporchi di lacrime. Ha perso il marito e non fa nulla per trovare un nuovo amore. Sta semplicemente in casa a piangere e fa in modo che la senta tutto il condominio. Una volta Gerard la invitò ma lei disse “Per carità ho da fare”.
Quando vado in palestra attraverso un viale pieno di prostitute. Prima non ci facevo caso ma dopo ciò che mi aveva raccontato Gerard, notai una grande quantità di rifiuti che non avevo mai visto prima.
Preservativi srotolati e fazzoletti secchi di sperma e brandelli di pizzo nero. E cenere e copertoni liquefatti come il sangue di San Gennaro al 16 settembre.
Tutta roba che scotta, brucia e bruciando emette gas. Quando a Torino c’è la nebbia non si vede neanche il fumo, si confonde con la nebbia ma il gas che entra nelle mie narici ammala me, i miei polmoni e il mio sistema nervoso. Io non lo vedo. Talvolta mi sembra di sentirne la puzza. Il tanfo aumenta sempre di più, stagione dopo stagione, giorno dopo giorno.
Il mio corpo si disfa e l’albero dove prima vedevo Gerard prima di sapere che fosse Gerard, è secco e non ha più foglie. Se ne vede solo un tronco mozzo perché il fusto indebolito ha ceduto e ora lì dietro potrebbe nascondersi solo un bambino.
Ilaria Grasso:
Sono impiegata in un fondo che finanzia formazione, attivista GLBT e transfemminista. Curo la rubrica settimanale ‘Pillole di Poesia’ per la rivista di Carteggi Letterari e collaboro con il blog Poetarum Silva recensendo prosa e poesia. Appassionata di letteratura, arte, architettura e musica. Invento la mia vita ogni giorno assecondando gli entusiasmi che rendono la mia vita costruttiva e in costante evoluzione. Il mio motto è : Quando di meglio non c’è, noi ce lo inventiamo!