Lui, mio marito
Racconto di Silvia Conforti
Lui, mio marito, dice di sentirsi trascurato, pover’uomo, non posso neanche dargli la gioia di uno sfogo sessuale, sempre stanca, dolente, piango per niente, sono davvero una lagna, una donna di merda.
Ha ragione lui, mio marito, non ci sono più le donne di una volta, quelle che partorivano mentre lavoravano nei campi. A me per arrivare a dieci centimetri di dilatazione mi ci sono voluti due giorni, mi ha smanettato dentro tutto il reparto maternità, credo anche quelli della cooperativa delle pulizie.
Il tuo sorriso è per me acqua limpida.
Me lo diceva i primi mesi, dopo ogni appuntamento e ogni sera al telefono.
Dopo ficcavo la testa sotto le coperte, mi immaginavo tra le sue braccia, e sbavavo di felicità.
Tutto quell’amore si è concretizzato presto, solo dopo nove appuntamenti – tutti segnati con i cuoricini sul calendario – ero incinta.
Ci siamo sposati e dopo sei mesi il frutto maturo è uscito dal mio ventre: quattro chili e duecento grammi, bello di mamma, rosa e polposo, ha strappato i rami del mio povero albero.
Non mi fa dormire, né di giorno e né di notte, se ne sta attaccato ai miei capezzoli come Dracula su un collo bianco.
Sono ridotta come uno zerbino all’ingresso di una caserma ma il mio uomo ha ancora voglia di fare l’amore con me. Solo all’idea che una qualsiasi cosa si introduca nell’albero senza foglie dal quale è germogliato il frutto, mi fa svalvolare.
Era meglio se nascevo tostapane, con le molle che si allargano morbide e sforna toast ripieni senza provare dolore. E i toast non piangono, non cagano.
Il tuo sorriso è per me acqua limpida.
Me l’ha detto di nuovo l’altra sera. Stava semi sdraiato sul divano con una birra in mano e io, per non disturbarlo, appollaiata sopra a una sedia con la creatura in braccio e una mia tetta a riempirgli la bocca. Lui, mio marito, ha perfino girato la faccia per dirmi quella bellissima frase distogliendola dalla TV che trasmetteva la partita.
Beh, c’era l’intervallo.
Che bello, ho capito che nonostante occhiaie grandi come trolley, smagliature sulla pancia, mani screpolate, ancora mi ama.
Purtroppo non ho avuto il tempo di manifestare la mia gioia perché il piccolo frutto ha sparso la sua polpa marroncina con venature bronzate sul pannolino fino alla sua tenera schiena e ancora più su, fino al collo.
Quando sono tornata in sala con il piccolo lavato e profumato, lui, mio marito, si era già assopito sul divano.
Comunque è stata una fortuna perché, nel frattempo, dopo il ruttino, la creatura ha rigurgitato sulla mia spalla una boccata acida di latte e come avrei potuto avvicinarmi e disgustare con quel cattivo odore l’olfatto tanto sensibile del mio amore?
Non so più neanche che giorno è.
Entro in cucina, la notte l’ho passata con il piccolo frutto in braccio a cercare di calmare i suoi pianti. Urlava, ha costretto il mio amore a spostarsi nella camera degli ospiti per non rovinarsi il sonno.
Nel lavello vedo i piatti incrostati di sugo e la tavola ancora apparecchiata dalla sera prima.
Mi trovo di fronte la vetrinetta dei bicchieri e purtroppo riflette la mia figura. È tanto tempo che non mi specchio. Oddio, sono spaventosa. Oltre alle borse sotto gli occhi, vedo un groviglio inestricabile di capelli e all’attaccatura una striscia chiara. Aiuto! Mi stanno venendo pure i capelli bianchi e ho due denti che mi dondolano, neanche avessi sei anni. Deve essere stata la concentrazione di progesterone avuta in gravidanza.
Nelle orecchie rimbombano le parole di mio marito, Il tuo sorriso è per me acqua limpida. Inizio a ridere così tanto che mi piscio addosso.
Vede la gora? È ancora là.
Non mi sono curata di asciugare per terra, ho posato lo sguardo sul tostapane arancione e dal profondo mi è schizzato fuori un fiotto di invidia per quella macchinetta. Voglio le sue molle che si allargano senza dolore, voglio anch’io sfornare toast senza un lamento. Voglio avere solo l’impegno di scaldare pane a cassetta una volta al giorno e per il resto del tempo starmene tranquilla.
Dalle camere è arrivata prima la voce di lui, mio marito che reclama il caffè e, a seguire, no, forse all’unisono, il pianto del piccolo frutto rosa.
Apro la finestra, ho bisogno d’aria, la vestaglia puzza di latte inacidito. La tolgo, mi dà la nausea. Il vento che mi sbatte in faccia invece è pulito e fresco.
Prima cosa metto sui fornelli la moka e dopo vado a prendere il bambino. Mentre sgambetta incazzato, lo infilo dentro la vestaglia, faccio un bel pacchetto. Continua a piangere ma con la stoffa sulla bocca il suono si è smorzato.
Non capisco perché anche il tostapane arancione dal piano di formica sembra guardarmi male. Insomma i frutti quando sono maturi cadono giù. No?
Ora lasciatemi andare, il caffè è venuto su con il suo bel suono. Che bello, ho chiuso la finestra e l’aroma ha invaso la cucina. Le due tazzine con i nostri nomi sono sul vassoio. Faremo colazione insieme, seduti sul letto, come i primi mesi di matrimonio, io e lui, lui e io, noi, finalmente in pace.
Biografia
Sono nata a Livorno e ci vivo da sempre con marito e figli.
Lavoro senza entusiasmo per un ente pubblico e la scrittura è la mia àncora di salvezza, l’appiglio sicuro nel mio mondo fantastico.
Diversi miei racconti sono pubblicati su antologie di AA.VV. e su riviste letterarie on line, ma ho anche una raccolta di racconti tutta mia (Le pietre in tasca) . Da poco ho partorito un romanzo; la gestazione è stata lunga e a volte dolorosa. Ora il neonato aspetta speranzoso di fare il suo primo ingresso nel difficile mondo letterario avvolto da una bella copertina (ricamata no ma patinata sì).