MARIE GRUBBE | Jens Peter Jacobsen
Traduzione e introduzione di Bruno Berni
Carbonio Editore, Collana “Origine”, 2019
La storia vera di una nobildonna danese del diciassettesimo secolo che sfidò la società del tempo inseguendo il desiderio di amare e di essere amata, di vivere a pieno e senza restrizioni.
La potente prosa di Jacobsen, frutto di un’accurata ricerca stilistica, ci consegna un personaggio femminile indimenticabile, descritto fin nei più intimi desideri e tormenti, che si intrecciano al vivido ritratto della società del tardo XVII secolo, dalle corti di Copenaghen alle fattorie dello Jutland. L’osservazione naturalistica si mescola allo slancio romantico, l’aristocratica sobrietà al lirismo, il fiorire delle immagini impressionistiche al vuoto del dubbio.
L’autore: Jens Peter Jacobsen (1847-1885) è annoverato tra i massimi scrittori della letteratura danese. Nato a Thisted nello Jutland settentrionale, si trasferì a Copenaghen, dove studiò filosofia e botanica. Traduttore e divulgatore di alcune opere di Darwin (tra cui L’origine delle specie), iniziò a metà degli anni Settanta l’attività di scrittore. La sua produzione comprende Mogens e altre novelle (1882), considerato il manifesto del naturalismo danese, Marie Grubbe (1876), Niels Lyhne (1880) e alcune raccolte di poesie. I suoi scritti esercitarono un fascino enorme su autori come Stefan George, Rainer Maria Rilke, Sigmund Freud, Thomas Mann, James Joyce.
Il curatore: Bruno Berni (Roma, 1959), traduttore e studioso di letterature nordiche, dal 1993 è direttore della biblioteca dell’Istituto Italiano di Studi Germanici a Roma. Ha pubblicato numerose traduzioni di autori classici e moderni prevalentemente danesi, ma anche svedesi, norvegesi e tedeschi, oltre a volumi e saggi. Tra i premi ricevuti, il Premio Hans Christian Andersen (2004), il Premio danese per la traduzione (2009) e il Premio nazionale per la traduzione del Ministero per i beni e le attività culturali (2013).
per gentile concessione della casa editrice ne pubblichiamo due ESTRATTI
(© 2019 Carbonio Editore)
Gli estratti proposti danno idea precisa del tormento interiore tra essere e dover essere che dilania l’animo di Fru Marie Grubbe, nobile signora realmente esistita nella Danimarca del 1600, emblema di regole scardinate (dopo due matrimoni infelici e altri amori impossibili, trovò la pace con il fattore della tenuta paterna di oltre 20 anni più giovane) e opposizione agli obblighi e alle convenzioni del tempo che angustiavano in specie le donne. Entrambi gli stralci rendono l’idea dell’adesione di Jacobsen alla corrente del Romanticismo che imperversò nell’800 e riguardò anche la letteratura. Dunque irrequietezza, pathos, coscienza della noia e dell’inadeguatezza alle regole del mondo.
Cap. X, pp. 115-116
E poi d’improvviso tutto tornò a essere completamente diverso.
Tutti i nervi erano tesi alla massima irritabilità, tutte le vene pulsavano di sangue assetato di vita e la fantasia, come l’aria del deserto, era satura di variopinte immagini e incantevoli visioni.
In certi giorni si sentiva come una prigioniera che con ansia vede scivolare via la giovinezza, una primavera dopo l’altra, senza fiori, fiacca e desolata, la vede svanire sempre, tornare mai. Ed era per lei come se la somma del tempo le fosse contata centesimo per centesimo, come se ogni centesimo le cadesse ai piedi tintinnando col tocco dell’ora, sgretolandosi, diventando polvere, e allora in una soffocante brama di vivere le capitava di torcersi le mani gridando come in preda al dolore.
Di rado si mostrava a corte o si faceva vedere dalla sua famiglia, poiché l’etichetta prescriveva che rimanesse in casa, e visto che era molto poco propensa ad apprezzare le visite, ben presto si interruppero e rimase completamente abbandonata a sé stessa.
La conseguenza di quel solitario rimuginare e rattristarsi fu presto un’apatica spossatezza. Per interi giorni e notti di fila rimaneva sdraiata a letto cercando di conservare una condizione in parte di veglia, in parte di sonnolenza, che generava sogni fiabeschi capaci di superare di molto, per nitidezza, le nebulose immagini di un sonno sano, cosicché erano quasi reali e le donavano una gradita compensazione alla vita che le mancava.
Giorno dopo giorno si faceva sempre più irritabile, il minimo rumore le procurava sofferenza e le capitava di avere le più strane smanie, desideri improvvisi e folli che di sicuro destavano dubbi sulla sua sanità mentale.
Del resto c’era solo un sottile filo a separare la follia da quella singolare voglia che la prendeva di compiere qualche disperata azione per il solo gusto di compierla, non perché avesse il minimo motivo né del resto lo desiderasse.
Così talvolta, quando era davanti alla finestra aperta, appoggiata al davanzale a guardare in basso il cortile lastricato che aveva sotto, le capitava di essere colta dal seducente impulso di gettarsi giù, semplicemente per farlo. Ma nello stesso istante la sua fantasia aveva compiuto il salto e percepiva il lacerante, fresco formicolio prodotto dalla caduta da un punto alto, e allora si allontanava bruscamente dalla finestra precipitandosi al centro della stanza, tremante di paura, con dentro l’immagine di sé stessa distesa e sanguinante sulla dura pietra, un’immagine così nitida da costringerla a tornare alla finestra e guardare giù, per scacciarla.
Meno pericolosa e di natura un po’ diversa era la voglia che provava quando le capitava, come accadeva di tanto in tanto, di guardarsi il braccio nudo e seguire quasi con curiosità il corso delle vene azzurre e viola sotto la pelle bianca, la voglia che provava di mordere quella bianca pienezza. E la assecondava realmente mordendo come un piccolo crudele predatore un segno dopo l’altro, ma non appena le faceva davvero male smetteva subito e si metteva ad accarezzare il povero braccio maltrattato.
Altre volte le capitava, mentre era seduta, che le venisse in mente di andare nella sua stanza e spogliarsi, solo per avvolgersi in una spessa coperta di seta rossa e percepire il liscio e fresco contatto della stoffa lucida, oppure per passarsi sulla schiena nuda una gelida lama d’acciaio.
Cap. XI, pp. 140-141
Volevo che la vita mi prendesse con tanta forza da esserne piegata o elevata, cosicché nella mia anima non vi fosse spazio per pensare ad altro se non a ciò che mi elevava o a ciò che mi piegava. Volevo sciogliermi nelle mie pene o ardere nella mia gioia. Ah, non capirete mai! Se fossi come uno dei condottieri dell’impero romano che erano portati in trionfo per le strade, allora vorrei essere io la vittoria e i festeggiamenti, io l’orgoglio, io le grida di gioia del popolo, lo squillar delle trombe, il potere, l’onore, tutto quanto in un suono stridente. Così vorrei esserlo, ma non come colui che in preda alla misera sete di onore e alla fredda superbia, in fondo al suo cuore pensa, mentre il carro avanza, a quanto splende negli occhi rancorosi della folla, con quanta impotenza le onde dell’invidia gli lambiscono i piedi, mentre lui con piacere avverte la delicatezza della porpora sulle spalle e il fresco della corona sulla fronte. Capite, Sti Høg, questo credo sia vivere, questa è la vita di cui ero assetata, ma sapevo che per me non sarebbe mai potuto essere così e mi pareva di averne io stessa la colpa per qualche incomprensibile motivo, mi pareva di aver mancato verso me stessa o di essermi messa sulla strada sbagliata. Io non so, ma mi sembrava che i miei aspri affanni fossero generati dall’aver toccato una corda che non doveva vibrare, e con quel suono mi fosse andato in pezzi qualcosa dentro, qualcosa che non voleva guarire, e perciò non avrei mai più avuto la capacità di costringere la porta della vita a rimanere aperta, ma sarei stata forzata a rimaner fuori ad ascoltare le note della festa, non invitata, non richiesta, come una serva storpia”.