CUORI CICATRIZZATI | Max Blecher
Traduzione di Bruno Mazzoni
Keller editore 2018
commento di Paolo Risi
Sono nel loro fortino i ricoverati nel sanatorio di Berck, al riparo dai frangenti del mare atlantico e dalle incognite di una vita che è un ultimo lancio di dadi. I fantasmi della morte, al contrario, hanno già espugnato quel fortino spolverato di salsedine, lo puntellano camuffati da cerimonieri, disponibili a elargire vitalità, forme residuali di erotismo e amor proprio.
Emanuel, giovane studente di chimica, di nazionalità romena, è l’ultimo arrivato nella clinica conficcata nel nord della Francia. Lo accompagna la diagnosi di tubercolosi ossea e l’indeterminatezza di una cura che ha l’ardire di contenere, in un corsetto di gesso, l’avanzare della malattia. E la corazza bianca – vera e propria prigione confezionata ad hoc – dopo un periodo di ambientamento viene fatta aderire al tronco di Emanuel. Per lui non sarà più possibile recedere: l’irrigidirsi delle bende sulla pelle sancirà l’ingresso del giovane nella confraternita degli assediati, abitanti di un mondo dai contorni fluttuanti.
Era davvero lui, Emanuel, quel corpo su una carrozzina, al centro di un salone in cui tutti i commensali stavano distesi accanto ai tavoli adorni con vasi di fiori?
Un’orchestrazione surreale della quotidianità (fra scaramucce amorose e bagordi più o meno illeciti) prova ad allontanare il timore che l’apparenza e il decoro possano subire gli attacchi del male, possano cedere all’erosione silenziosa del morbo. Ma già nello studio medico dove Emanuel riceve l’infausta diagnosi, la realtà, visione spogliata di oggetti e codici di riferimento, inizia a manifestarsi in tutto il suo crudele nitore.
Nell’intervallo di tempo in cui era rimasto rinchiuso nello studio del dottore, il mondo si era stranamente assottigliato. Il contorno degli oggetti continuava ancora a esistere, ma questo filo sottile che, come in un disegno, delimita una casa per fare di essa una casa, o fissa il profilo di una persona, quel contorno che racchiude cose e uomini, alberi e cani, a malapena tratteneva ancora entro i suoi margini la materia pronta ad andare in malora. Sarebbe bastato che qualcuno tirasse quel filino dal margine esterno delle cose perché d’un tratto quegli edifici imponenti, privati del loro proprio profilo, si liquefacessero in una materia uniformemente torbida e grigia.
A Berck piroettano figure che andranno a gravitare intorno all’inizialmente spaesato studente di chimica. Sono i celebranti della malattia e della convalescenza, compagni di viaggio che aggiungeranno mese dopo mese pagine decisive alla sua storia personale. Fra di loro spiccano Ernest, il sodale affettuoso che fa un po’ da padrone di casa nel sanatorio, Quitonce, la cui analisi lucidissima sulla malattia discioglie ogni possibile grumo di rassegnazione, e infine Solange, una sorta di volontaria che allaccerà con Emanuel una disarticolata storia d’amore, confronto di pulsioni e aspettative via via deluse. Ma nella schiera di corpi immobilizzati, sdraiati elegantemente su barelle dotate di tutti i comfort, toccherà alla giovane Isa, condannata da una forma particolarmente aggressiva della malattia, a dar voce al pensiero sconvolgente, che è assoluto e traccia l’orizzonte letterario dell’opera di Max Blecher.
Tutti siamo stati travagliati… Tutti ci siamo levati nel cuore della notte e abbiamo tastato disperati il nostro gesso. Tutti… tutti… poi però, quando i colpi della sorte si sono accentuati non ho più sentito nulla… Sai cos’è che si definisce in medicina ‘tessuto cicatrizzato’? È quella pelle livida e aggrinzita che si forma sopra una ferita rimarginata. È una pelle quasi normale, tranne per il fatto che è insensibile al freddo, al caldo, o alle offese… Vedi, i muscoli cardiaci dei malati hanno ricevuto nel corso della vita così tante ferite da taglio che si sono trasformati in tessuto cicatrizzato… Insensibili al freddo… al caldo… alla sofferenza… Insensibili e illividiti dalla crudeltà...
Intanto irrompe l’estate sulla costa nel nord della Francia. I villeggianti occupano le spiagge e in buona parte la casa di cura, trasformata, come in improvviso cambio di scenografia, in un dignitoso albergo per famiglie. I malati vengono fatti spostare, posizionati sulle loro barelle in un angolo nascosto del giardino. Il copione della malattia, i suoi rituali, risultano sconvolti dalla vitalità dei nuovi arrivati, ed Emanuel, irritato dalla confusione, architetta una possibilità di fuga. Troverà dietro una serie di altissime dune la zona reietta della località turistica, e nella retroguardia del silenzio una villa in pietra abitata da una donna americana e da suo figlio quindicenne.
In attesa di un’onda salvatrice che lo riportasse in piena vita, in una piena comprensione delle cose, Emanuel diviene ospite della casa affacciata sul mare; si illude di trovarvi pace e condizioni ideali per favorire il decorso della malattia, ma la sua oggettiva invalidità e gli strascichi della sua presenza al sanatorio (una rottura del rapporto con Solange mai del tutto esplicitata) gli impediranno di godere a pieno di quell’oasi di tranquillità e indeterminatezza.
Cuori cicatrizzati è un romanzo di formazione, un’opera – scritta nel 1937 e pubblicata quest’anno da Keller – che investiga, dai luoghi della malattia, la malattia stessa. Max Blecher – attraverso una scrittura magnificamente controllata, cosparsa di suggestioni e lirismo – delinea la figura di Emanuel a partire dalle proprie esperienze, da ciò che, giorno per giorno, l’immobilità e la sofferenza gli suggeriscono.
All’autore romeno, non ancora ventenne, venne diagnosticata una spondilite tubercolare, malattia che lo costringerà, per i successivi dieci anni e fino alla morte, a mantenersi in posizione sdraiata, con il busto protetto da un corsetto di gesso. La quasi completa immobilità non gli negherà l’accesso al mondo delle arti e della speculazione letteraria: colloquierà per via epistolare con personaggi del calibro di Gide, Breton e Heidegger, e darà corpo a una bibliografia piuttosto consistente, fatta di articoli, novelle, da una raccolta di poesie e due romanzi, Cuori cicatrizzati, appunto, e Accadimenti nell’irrealtà immediata, scritto nel 1936 e pubblicato da Keller Editore, in Italia, nel 2012.
La scrittura di Blecher è stata accostata a quella di grandi scrittori come Franz Kafka, Bruno Schulz e Robert Walser, mentre l’ambientazione di Cuori cicatrizzati, gli effluvi e la decadenza dell’albergo-sanatorio, non possono che rimandare alle atmosfere presenti nel capolavoro La montagna incantata di Thomas Mann, affresco che però si distanzia, proprio per la vastità dei suoi riferimenti storico-politici, dall’attitudine e dalla volontà blecheriana di elaborare un ritratto “in presa diretta”, intriso di quotidianità dolente e di surrealismo.
Il sanatorio (microcosmo e nel medesimo tempo luogo simbolo) amplifica lo spaesamento interiore di Emanuel, lo costringe a elaborare un proprio sistema di valori e priorità. Per lui la tentazione di fuggire è violenta, si specchia nelle esperienze di morte e di precarietà assoluta che lo circondano. Vorrebbe afferrare il vuoto, Emanuel, per divenirne parte, ma ogni oggetto, ogni manifestazione vitale, a Berck, si rigenerano incessantemente come onde dell’oceano. Anche la decisione finale di lasciare la clinica per trasferirsi in un sanatorio in Svizzera ha il sapore della rinuncia, del tentativo di sottrarsi alla ciclicità immutabile degli eventi.
Aveva provato un giorno Ernest, amico riflessivo e fedele, a descrivere a Emanuel quella vertigine inafferrabile, quel sentimento crudele di vuoto, fatto di brezze e di luce provvisoria. È un pensiero, un tentativo di incasellare la vita, al di là della fuga e degli antidoti alla sofferenza.
Esistono momenti in cui sei ‘meno di te stesso’ e meno di qualsiasi cosa. Meno di un oggetto che osservi, meno di una seggiola, di un tavolo e di un pezzo di legno. Sei la parte nascosta delle cose, nel sottosuolo della realtà, al di sotto della tua propria stessa vita e di ciò che accade intorno… Sei una forma più effimera e più sconnessa della mera materia immota. Ti occorrerebbe allora uno sforzo immenso per comprendere l’inerzia elementare delle pietre e giacere nullificato, ridotto a ‘meno di te stesso’ nell’impossibilità di fare quello sforzo.
In dialogo con Bruno Mazzoni, traduttore di “Cuori cicatrizzati”
Può fornirci una descrizione della personalità di Max Blecher secondo la sua esperienza di studioso e attraverso la percezione che la traduzione della sua opera le ha indotto?
Da quanto emerge dai ricordi dei pochi amici che lo hanno frequentato negli anni cupi della degenza in Romania c’è sicuramente stata da parte sua la volontà di non cedere dinanzi al male e di sopportare stoicamente la sofferenza fisica, con la capacità perfino di scherzarci su… con una complessa autoironia, squisitamente ebraica, sarei portato a pensare. Del resto, anche sul piano più specificatamente letterario, Blecher stesso ha ripetuto di non volere in alcun modo cadere in una scrittura confessiva, su cui hanno invece insistito le prima analisi critiche a lui temporalmente più vicine. Non è forse casuale che la redazione di Accadimenti nell’irrealtà immediata ci venga offerta con una narrazione più ‘moderna’, in prima persona, laddove il libro immediatamente successivo, Cuori cicatrizzati, recuperando la scrittura in terza persona, tende magari a creare un certo effetto di ‘distanza’, in grado di offrire una oggettivazione maggiore rispetto al tema centrale.
In una intervista su youtube Mircea Cărtărescu, parlando di Blecher, dice che lui è una “condizione”. Mi ha molto colpita la precisione disarmante della verità. Eppure proprio da questa Blecher parte per scavare nella “condizione” non individuale ma “universale”. Cosa ne pensa?
Sono convinto che Cărtărescu abbia fornito, con la sua strabiliante lucidità, una diagnosi efficace. Del resto è ciò che costituisce la grandezza, poniamo, di un Kafka o di un Salinger, che sanno proiettare su uno schermo amplificato, universale, i dati personali, i crucci individuali, dove le microstorie non rimangono mai tali, limitate dunque all’angusto orizzonte di un quartiere, di un villaggio o di una città. E aggiungerei che gli squarci lirici, così frequenti nell’ultimo libro di Blecher – come del resto nella vorticosa, raffinata prosa di Cărtărescu – contribuiscono in buona misura a strappare il soggetto dal tessuto di una mera quotidianità.
Max Blecher è considerato il “Kafka rumeno” condivide e in che modo questa considerazione?
Come sa, è una formula che viene attribuita a un grande conterraneo di Blecher – ben più noto di lui, come del resto di parecchi altri importanti scrittori romeni, per il semplice fatto che è vissuto a Parigi (come del resto Cioran, o il grande Celan) e ha scritto molte sue pièces in francese – mi riferisco ovviamente a Ionesco. Una certa ‘aria di famiglia’, per riprendere una suggestiva immagine benjaminiana, è verosimilmente presente nella cultura europea dei decenni compresi fra i due conflitti mondiali, riterrei però preferibile non ricorrere a certi chichés che creano una qualche forma di spaesamento, inquinando in certo modo la genuinità di un autentico giudizio critico (come d’altronde avverrebbe se insistessimo sul fatto che Accadimenti… anticipa di quattro anni la tematica che renderà famosa La nausée sartriana).
Quale “intenzione traduttiva” possiamo trovare in questo suo lavoro, come è la scrittura di Max Blecher?
Da quando ho preso la decisione di tradurre opere della letteratura romena – cosa che sul piano strettamente autobiografico ha avuto inizio relativamente tardi, poco meno di vent’anni fa – mi sono dato alcune direttive precise. Proverò a spiegarmi meglio: sull’onda del successo degli scrittori sudamericani, avrei potuto scegliere, ad esempio, di traghettare in lingua italiana opere di sicuro interessanti di certi autori romeni che hanno ben illustrato lo ‘specifico’ balcanico (penso a Matei Caragiale, a Panait Istrati, che ha scritto soprattutto in francese, a Ioan Grosan e via dicendo)… ho però preferito iniziare da quegli scrittori che mi parevano collocarsi comunque meglio nella grande famiglia della Letteratura moderna europea, proprio per mostrare che la letteratura romena aveva assimilato e già fatta propria la lezione otto-novecentesca. Non a caso il primo scrittore su cui, d’intesa con la casa editrice Voland, abbiamo ‘investito’ le nostre (poche) risorse è stato Mircea Cărtărescu, autore di romanzi, di racconti e non meno poeta; seguito a sua volta da un altro scrittore importante, della generazione a lui precedente, Ana Blandiana, la più nota poetessa romena degli ultimi decenni. In questa linea, ho ritenuto essenziale proporre già in passato a qualche editore italiano l’opera di Blecher, un autore pressoché misconosciuto, almeno fino a una quindicina d’anni fa, anche in Romania. Grazie al gusto per la (ri)scoperta di Roberto Keller l’impresa è riuscita, e l’idea di un ‘classico’ della modernità, di un ebreo romeno che giunge a noi dalla periferia, in senso proprio e figurato, dell’impero delle lettere, sta intercettando un interesse e un apprezzamento realmente sorprendenti. Per rispondere però al nocciolo vero della domanda, mi tocca confessare ora una debolezza personale: dopo avere tradotto più di duemila pagine dall’opera cartareschiana in prosa, e un numero imprecisato di suoi componimenti poetici, tradurre Blecher ha significato per me entrare nell’alveo più autentico della modernità scritturale del più importante scrittore romeno vivente.
Max Blecher (Botoșani, 8 settembre 1909 – Roman, 31 maggio 1938) è uno scrittore ebreo morto a soli ventinove anni, nel 1938, per tubercolosi spinale. Trascorse i dieci anni di malattia quasi sempre a letto, praticamente immobile. Ma la sua immaginazione volò libera. Dotato di un insolito talento e visione scrisse poesie, due romanzi – Accadimenti nell’irrealtà immediata e Cuori cicatrizzati entrambi editi in Italia da Keller – e mantenne un’intensa corrispondenza con André Breton, André Gide e Martin Heidegger. Venne lodato da Eugène Ionesco, Mihail Sebastian, Geo Bogza e Saşa Pana, e molti paragonarono la sua prosa a quella di Franz Kafka, Bruno Schulz, Robert Walser o Thomas Mann.
Bruno Mazzoni (n. 1946) è stato professore di Letteratura Romena all’Università di Pisa (e per due mandati Preside della Facoltà di Lingue e Letterature straniere; ha insegnato anche in varie altre Università: Bucarest, UBB/Cluj-Napoca, Calabria, Roma-La Sapienza, Firenze). Membro fondatore dell’Associazione Italiana di Romenistica (A.I.R), è doctor honoris causa delle Università di Bucarest e Universitatea de Vest di Timişoara. Ha pubblicato studi sulla poesia romena (I. Budai-Deleanu, M. Eminescu, T. Arghezi, I. Barbu, N. Stănescu, A. Blandiana, M. Cărtărescu), ha curato l’edizione critica di un ampio corpus di iscrizioni del cosiddetto “Cimitero allegro” di Săpânţa (ETS, Pisa 1999), si è occupato di problemi di storia della linguistica romena e romanza del XIX sec., ha coordinato il volume Geografia e storia della civiltà letteraria romena nel contesto europeo (Pisa University Press, 2010, insieme con A. Tarantino). Ha tradotto versi e prosa dall’opera di Ana Blandiana (Donzelli, Roma 2004, in collaborazione con Biancamaria Frabotta), di M. Blecher (Keller, Rovereto 2012, 2017), di M. Cărtărescu (l’opera in prosa, presso Voland: Travesti; Nostalgia; Perché amiamo le donne; i tre volumi di Abbacinante; e due antologie di versi: Pagine, Roma 2003; Nottetempo, Roma 2015), del Premio Nobel Herta Müller, con l’unico suo libro di versi-collage composto in lingua romena (Transeuropa, Massa 2012). Per l’attività scientifica e culturale svolta per la diffusione della Romenistica in Italia, gli è stato conferito dal Governo romeno l’Ordine Nazionale „al merito” col titolo di Comandor (2002); per la sua attività di traduttore dal romeno ha ricevuto, da parte del Presidente della Repubblica Italiana, il Premio nazionale per la Traduzione del Ministero dei Beni Culturali (2008).