Miriam suona l’hang è un estratto da “Antartide”, romanzo di Laura Pugno edito da minimum fax nel 2011 e finalista al Premio Mariateresa Di Lascia e al Premio Carlo Cassola.
Dopo un periodo trascorso tra i ghiacci polari al seguito di una spedizione scientifica, Matteo torna in Italia. Alle spalle, un incidente sott’acqua, che i colleghi sospettano essere stato un tentativo di suicidio. A Roma lo attende una vita lasciata in sospeso: tutto ciò che partendo aveva abbandonato gli ripiomba presto addosso. Suo padre muore, lasciando tutto in eredità alla Casa di Miriam, una struttura alberghiera in un paesino delle Alpi: proprio dove, nel giro di poco, morirà il padre di Sonia, la ex moglie con cui Matteo aveva quasi perso i contatti. Troppo per essere una coincidenza. Sonia e Matteo saranno costretti a ritrovarsi, questa volta tra i ghiacciai di montagna, nella Casa di Miriam, la quale lentamente svelerà i suoi segreti: fino a che punto la morte è un trauma violento? Quando può essere invece una scelta? E quando è davvero naturale? Solo nel cercare risposte sulla fine, Matteo potrà dare un nuovo inizio alla propria vita.
Miriam suona l’hang
Subito dopo, Matteo vide le torce nel buio e sentì un brivido lungo la schiena. Gli anziani ospiti della Casa stavano sciamando dagli chalet, dirigendosi verso la pira funebre di Guido Salvati. La maggior parte dei presenti portava fiaccole, altri, i più vecchi, o chi aveva qualche malattia che gli faceva tremare le mani, torce elettriche. Due inservienti stavano cospargendo la legna alla base della pira con il liquido che usciva da delle grosse taniche. Cati era accanto a loro, sull’impalcatura.
Vide Gabriel Thierry che usciva dallo chalet di Sonia e risaliva la folla fino a ponersi in testa alla piccola processione. Si rese conto che gli ospiti della Casa erano almeno venti. Alcuni di loro – una coppia, un’altra, e più in là due donne anziane – si tenevano per mano.
Matteo cercò con gli occhi Miriam, i suoi capelli rossi. Si aspettava di trovarla accanto a Thierry, alla testa del gruppo, ma improvvisamente, sbucò dall’oscurità accanto a lui, dove fino a un istante prima era stata Cati. Non teneva più Micòl in braccio.
Ti piace?, chiese Miriam, indicando davanti a sé. Aveva un sorriso sulle labbra.
Una fine degna, disse Matteo, con cautela. Niente in quella strana cerimonia funebre gli risultava familiare, e continuava a chiedersi come fosse possibile che Guido Salvati stesse per essere bruciato su una pira, al limitare di un bosco.
Tuo padre sarebbe stato d’accordo, disse Miriam.
Era diretto qui, disse Matteo, alla cieca.
Se fosse arrivato da noi, avrebbe avuto la stessa morte, disse Miriam, e subito si corresse. La stessa cerimonia funebre.
Matteo la guardò. Parlare con Miriam era come gettare sassi lisci e piatti in un’acqua scura, come faceva da ragazzo quando Niccolò lo portava al lago.
A Niccolò sarebbe piaciuta, disse, con un mezzo sorriso, e sfiorò con le dita le ceneri che aveva in tasca. Era già ora di parlarne con Miriam? No, quello non era il momento adatto. Era meglio aspettare.
Anche a Guido piaceva. La voce di Miriam si abbassò di un tono. Ne aveva viste molte altre, come tuo padre, del resto.
Matteo la guardò di nuovo. Sapeva che suo padre e Miriam si erano incontrati a Roma, e non una volta sola, certamente. Ma non aveva ancora messo a fuoco che quella progettata prima di morire poteva non essere stata la sola visita di Niccolò Bechis agli chalet. Anche se, a pensarci bene, c’era da aspettarselo.
Veniva spesso qui?, chiese Matteo. Davanti a lui il gruppo di anziani si era fermato, disposto a schiera, con le torce in alto. Quella conversazione stava per finire.
Miriam sembrò notare la sua inquietudine. Non possiamo iniziare finché non arriva Sonia, disse. Manderò Cati a chiamarla. Poi alzò gli occhi verso Matteo e disse, tuo padre non era solo uno dei maggiori benefattori di questa casa. Ha contribuito a fondarla, così com’è ora. Potrei dire che l’idea è stata sua, e io mi sono limitata a realizzarla.
Cati!, chiamò poi. La ragazzina balzò giù dall’impalcatura e li raggiunse, Miriam le disse cosa doveva fare, e Cati fece segno di sì con la testa. Un istante dopo, la videro sparire in direzione dello chalet di Sonia.
Miriam si chinò. Matteo seguì il movimento e vide che la donna aveva appoggiato per terra, davanti a sé, una strana custodia di pelle rosso cupo che sembrava contenere un ufo in miniatura. Doveva avere qualcosa a che fare con la cerimonia. Miriam fece scorrere la chiusura lampo della custodia, liberando un oggetto scuro, formato da due dischi concavi di metallo, cavo al centro. Lo tirò su e fece scorrere le dita sulla superficie liscia.
Dopo un istante di esitazione, Matteo fece lo stesso. Cos’è?, chiese.
Uno strumento musicale, disse Miriam. Si chiama hang, lo produce una piccola casa svizzera. È stato inventato solo qualche anno fa. Uno dei nostri ospiti lo suonava, e ha insegnato anche a me. Da quando è morto, lo suoniamo per i roghi. Le sue dita sfiorarono quelle di Matteo, ma come se non se ne rendesse conto. Da ragazza, disse, sono stata al Conservatorio. Non suonavo da molti anni, quando ho ricevuto l’hang. Intrecciò le dita a quelle di Matteo, stavolta consapevolmente. Hang, disse, significa mano, nel dialetto di Berna. Sto insegnando a Cati a suonarlo.
Di colpo, Miriam gli lasciò la mano e Matteo alzò gli occhi verso il gruppo. Sonia stava venendo verso di loro, con Micòl. Accanto a lei, Cati spiccò una corsa e li raggiunse.
Miriam fece un gesto in direzione di Thierry. Gabriel si voltò verso la folla. Improvvisamente si fece silenzio. Miriam iniziò a suonare.
La musica dell’hang era dolce, come una voce di donna, ultraterrena.
Le mani di Miriam sfioravano, percuotevano la superficie di metallo. Matteo guardò Sonia, diritta e rigida, e subito dopo, notò un movimento in fondo, nell’oscurità. Le teste di quelli che componevano il piccolo gruppo si voltarono, e Matteo vide avanzare, dall’infermeria dove era stato ospitato il corpo di Guido per la camera ardente, quattro uomini più giovani della maggioranza dei presenti, forse sulla cinquantina, ma nel buio rotto dalle torce non riuscì a distinguere i volti. Reggevano una barella di legno e stoffa su cui era stato deposto il corpo di Guido, avvolto in delle bende bianche.
Giunti dove si trovava Sonia, i portatori deposero la barella a terra. Sonia si inginocchiò, scoprì il viso del padre dalle bende, lo baciò sulla fronte. Sembra abbastanza calma, pensò Matteo, ma fu proprio in quel momento che Sonia scoppiò in lacrime e si aggrappò al corpo, singhiozzando. Uno dei portatori le mise una mano sulla spalla.
Sonia si riscosse, si alzò da terra, prese in braccio Micòl, e fece un gesto ai portatori che issarono di nuovo la barella. Il suono dell’hang si udiva ancora, nitidamente. I portatori salirono, con uno sforzo visibile, i quattro gradini della pira e vi deposero il corpo, vi versarono sopra lo stesso liquido di cui prima era stata intrisa la legna, poi scesero.
La folla rimase immobile, finché Gabriel fu il primo ad accendere il fuoco. Allora tutti si avvicinarono alla pira e aggiunsero la propria fiaccola al rogo, sussurrando ciascuno qualcosa che Matteo non capì. Uno di quelli che le erano più vicini offrì una fiaccola a Sonia, che scosse la testa. Poi, di colpo, la prese e la lanciò nel fuoco che ormai crepitava divorando il corpo di Guido.
Improvvisamente, Matteo notò di nuovo Cati: si aggirava con in mano un cesto di quelle che, a giudicare dall’odore che emanavano una volta gettate nel fuoco, dovevano essere erbe profumate. Ognuno ne prendeva una manciata e la aggiungeva al rogo.
Così coprono l’odore della carne che brucia, pensò Matteo. In quell’odore, notò mescolata alle erbe una sfumatura chimica. Tutta la cerimonia si era svolta in completo silenzio, salvo per il suono dell’hang e le frasi appena sussurrate. Sfiorò di nuovo con le dita le ceneri di Niccolò che aveva addosso, e si rese conto che in qualche modo, tenerle con sé in quel momento gli dava conforto. C’era ancora tempo, c’era tutto il bosco per disperderle. Uno di questi giorni, prima di partire, pensò.
Il corpo di Guido Salvati era stato ormai completamente divorato dal fuoco, e gli ospiti erano rientrati agli chalet. Sullo spiazzo rimanevano solo Miriam, Gabriel Thierry, Matteo e Cati. Sonia se n’era andata molto prima che la salma finisse di bruciare, con Micòl.
Miriam rimise a posto l’hang nella custodia, si tolse la giacca e la appoggiò sulle spalle della figlia. Brava, Cati, disse piano, abbracciandola.
Cati le mise le mani sulle guance. Senti, disse, ho l’odore dell’erba.
Tu hai sempre un buon odore, sorrise Miriam, alzando gli occhi verso Matteo. Ma adesso dobbiamo rientrare. Spero che rimarrete ancora qualche giorno, disse, e si avviò con Cati, senza aspettare una risposta.
Thierry, notò Matteo, era sparito di nuovo nel bosco.
Laura Pugno è nata a Roma nel 1970. Poetessa, scrittrice e saggista, dal 2015 dirige l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid. Ha pubblicato, in versi: Tennis (poesie con prose di Giulio Mozzi, NEM, 2001), Il colore oro (con foto di Elio Mazzacane, Le Lettere, 2007), DNAct (ZONA, 2008), la plaquette Gilgames’ (Transeuropa, 2009), La mente paesaggio (Perrone, 2010), Bianco (Nottetempo, 2016), I legni (Pordenonelegge, 2018), L’alea (Perrone, 2019). In prosa, ha pubblicato i romanzi Sirene (Einaudi, 2007 – Marsilio, 2017, edito in Francia da Inculte, traduzione di Marine Aubry Morici), Quando verrai (minimum fax, 2009), Antartide (minimum fax, 2011), La caccia (Ponte alle Grazie, 2012), La ragazza selvaggia (Marsilio, 2016, Premio Campiello Selezione Letterati), La metà di bosco (Marsilio, 2016) e la raccolta Sleepwalking. Tredici racconti visionari (Sironi, 2002). Nel 2018 è uscito il saggio In territorio selvaggio (Nottetempo) e nel 2020, con Giulio Mozzi, l’Oracolo manuale per poete e poeti (Sonzogno).
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