Uomo bianco, soltanto il tempo ci separa.
Una volta, tanto tempo da vivevi nelle caverne,
Usavi l’ascia, vestivi di pelle,
Anche tu temevi il buio, scappavi dall’ignoto.
Torna indietro, ricorda il tuo Alcheringa*
Quando il lampo era ancora magia e ti nascondevi
Dal terribile fragore del tuono nel cielo,
Razza bianca superiore, soltanto il tempo ci separa
Come alcuni sono maturi, altri ancora bambini,
Noi siamo gli ultimi delle tribù dell’Età della Pietra,
In attesa che il tempo di favorisca
Come ha favorito te.
L’Australia ha sempre esercitato una grande attrazione. È quel continente remoto dove la natura ha saputo evolversi a modo suo, dove esistono il canguro e il koala, dove crescono le seicento varietà di eucalipti e la wollemia nobilis, attrattiva di molti giardini botanici, e dove accanto all’umanità nuova d’importazione, quell’australiano britannico rude e vivace ma bianchissimo, sopravvivono una manciata di tribù di uomini antichi, di ab-origini che vivono lì dalla notte dei tempi e ancora cercano di vivificare le vastità dell’Australia interna come prima dell’invenzione del telefono, del pc o di tutte quelle comodità a cui noi, qui, siamo particolarmente affezionati.
La fascinazione della cultura australiana in Occidente è transitata, nell’epoca attuale, attraverso alcuni episodi, come la conoscenza dell’arte pittorica tradizionale, quel puntillismo arcaico ma attualmente rinnovato attraverso le comunità di artisti, molto spesso autoctone, che abitano certe aree remote, minuti villaggi circondati dalla polvere, esposta nel 2001 nella ricchissima mostra Aborigena, a cura di Achille Bonito Oliva, a Torino, presso gli spazi di Palazzo Bricherasio. Ovviamente grazie al successo di alcuni autori australiani, quali Banjo Paterson, Patrick White, Tim Winton, il nobel J M Coetzee, il poeta Les Murray, Dorothy Hewett, Dorothy Porter, e anche il cinema, a partire dal discusso ciclo di pellicole dedicate alla figura di Crocodile Dundee, alias Paul Hogan, il quale, nonostante fosse un blockbuster ha comunque introdotto lo spettatore italiano quanto quello americano alle diversità tra l’Australia moderna e dinamica delle città della costa orientale, non dissimile da una New York o da una Milano, ad alcuni degli usi e dei costumi dell’Outback, la vastità rurale e talvolta selvaggia dei territori interni e nord-occidentali.
In Italia abbiamo recepito alcuni di questi segnali, la poesia è circolata soprattutto grazie alle opere di Les Murray, alla traduzione del suo romanzo Freddy Nettuno e della sua ricchissima raccolta di saggi Lettere dalla Beozia (entrambe grazie a Giano editore), quindi l’antologia Un arcobaleno perfettamente normale (Adelphi), mentre altre voci sono rimaste circoscritte nei circuiti ristretti, per quanto onorevoli, delle riviste specializzate o dei convegni accademici. Un altro piccolo mattoncino arrivò grazie al teatro, arte feconda nelle popolose città bianche australiane, grazie a teatri specializzati e a compagnie che ogni anno allestiscono opere originali australiane. Karin Mainwaring è una di queste voci e un suo testo molto rappresentativo, I danzatori della pioggia è stato tradotto, pubblicato e rappresentato in Italia. Il successo ampio dei romanzi di Winton ha seminato con generosità, fino all’arrivo delle traduzioni di opere di due poetesse e autrici originali, quali Dorothy Porter (anzitutto il suo poema in versi, La maschera di scimmia, che divenne un film di fama mondiale) e Dorothy Hewett, da noi nota anzitutto come novelist, grazie al romanzo La marea delle quadrature (Giano), poi ripubblicato come Un cottage sull’oceano (bleah! per il titolo, Neri Pozza) e le storie de I raccoglitori di fragole e altri racconti (Neri Pozza).
Era rimasta invisibile la voce potentissima di Kath Walker o Oodgeroo Noonuccal (1920-1993), poetessa e scrittrice, attivista ed educatrice, artista aborigena, vincitrice di molti riconoscimenti e Membro dell’Ordine dell’Impero Britannico. Ora questo ritardo viene sanato da una ricca antologia poetica curata da Margherita Zanoletti, La mia gente / My People (Mimesis). Il volume ci offre una ricca descrizione della parabola letteraria e umana dell’autrice e una selezione della sua vasta produzione in versi.
Kath Walker fu la prima poetessa aborigena a pubblicare nel 1964 un’opera letteraria, erano anni in cui il movimento per la rivendicazione dei diritti fondamentali degli aborigeni infiammava la scena politica – incredibilmente gli aborigeni vengono riconosciuti come cittadini australiani soltanto alla fine del decennio – e non pochi australiani vedevano gli aborigeni come degli sbandati ubriaconi, senza diritti, dei fuori casta trattati anche come veri e propri schiavi; si vadano a leggere, ad esempio, due racconti dalla raccolta della Hewett, Le barriere di Jarrabin e I raccoglitori di fragole. We are going è il titolo della prima raccolta della Walker, vendette diecimila copie sebbene fu stroncata dalla critica letteraria bianca, l’unica che contasse, anzi, l’unica che esistesse. E non di meno accadde per la seconda raccolta, uscita nel ’66, The Dawn Is At Hand. Eppure l’attivismo politico e sociale della Walker divenne travolgente tanto da essere considerata una partigiana dei diritti del popolo aborigeno. Nel 1970 esce la prima edizione di My People, che diventa in sostanza la sua raccolta-madre, il volume che offre ai lettori le poesie delle prime due raccolte e altri testi che si aggiungono nel corso delle edizioni uscite in seguito, cinque in totale, tre finché l’autrice era in vita, due postume. Potremmo anche considerarla analoga a quel che è stato Foglie d’erba per Walt Whitman in un altro continente.
I temi sono molti ma due i cardini, i poli magnetici principali: l’identità aborigena, la rivendicazione di una piena orgogliosa identità aborigena ed il rapporto viscerale con la terra, col paesaggio, con le radici degli alberi e tutto quello che popola quel mondo a parte. Oggi è tanto raro incontrare autori che non parlino di questa unità di tutte le specie, del rapporto intimo tra natura umana e natura animale e vegetale, tutti più o meno consapevolmente citiamo San Francesco, Dogen, Arne Naess e Aldo Leopold, ma soltanto una manciata di anni fa tutto questo era occasionale, raro, pochi autori avrebbero rivendicato tutto questo con vigore come avviene oggi massivamente, diffusamente. La Noonuccal è un’autrice della terra, che muove la sua penna tra questi elementi, che ascolta il vento ruggire contro il mondo delle macchine e dei palazzi, rivendicando lo spazio che è stato sottratto.
Qualcosa di osceno nei rumori
Delle cose create dall’uomo offende la dolcezza e la limpidezza
Della Natura
[…]
Lasciatemi i suoni fatti da Dio –
Tutti bellissimi per me
Forti e delicati,
Dalla piccole, sottile
Nota di violino dell’ape
Al frastuono del mare turbolento,
Tumultuoso ruzzolando sulla riva.
Questa poesia si intitola Assalita dai rumori (pp 112-113), quella che apre l’articolo Età della Pietra (pp 142-143). Siamo poco distanti dalle atmosfere e dalla natura imponente che qualche lettore ricorderà in Les Murray, ma nondimeno nelle medesime aree semantiche di autori come Thoreau, Emerson, le lyrical ballads britannicissime, ma anche gli americani come Whitman – ma chi al fondo non è un pizzico whitmaniano? – e Walcott e Mary Oliver e Robert Bly, o Merwin o Gary Soto o Snyder o quanti altri! La natura d’altronde è il mondo navigato e cantato dalle tribù aborigene, lungo quelle celebri vie del sogno e dei canti così ben descritte da Bruce Chatwin. Oltremodo il nome aborigeno che la Walker ha scelto per se stessa, Oodgeroo, indica la corteccia scagliosa della melaleuca, pianta molto diffusa, nelle sue diverse specie, nell’isola; Noonuccal invece è il nome della sua tribù di appartenenza.
Ogni forma di razzismo purtroppo condiziona l’esistenza dei nostri simili, e noi che oggi ci lamentiamo di ogni minima discriminazione, adeguatamente, per fortuna non conosciamo la vergogna che ha legato l’epica avventura delle comunità umane sparse nel mondo per secoli. Se c’è infatti qualcosa che ha unito il mondo intero, per tutta l’epoca moderna, non è certo stato l’amore, ou contraire my friend, è stato il dolore, è stata la diseguaglianza, è stato proprio il razzismo. Che siano le piantagioni di cotone del sud degli Stati Uniti, che siano le comunità a pelle scura che attraversano il Brasile, che siano i giapponesi che non si mescolano ai coreani, ai cinesi, ai filippini e nemmeno tanto ai visitatori occidentali, e, non dimentichiamolo, nemmeno i cordiali torinese che non affittavano ai meridionali e non li volevano nei loro negozi per bene (e non sono storie completamente concluse). Tutto questo ovviamente ha lacerato la storia individuale e sociale degli aborigeni a quali è stata sottratta la terra, ai quali è stata imposta una lingua, una cultura e una religione che non aveva nulla a che vedere con loro, per non parlare di molte situazioni che sarebbe meglio dimenticare ma che connotano purtroppo, decenni, anzi almeno un secolo di ingiustificabile sfruttamento. La Noonuccal non si è sottratta, anzi, ha avuto la forza, la determinazione di trasformare tutto questo dolore in arte: si leggano poesie come Ragazze madri dalla pelle scura (pp 118-119), Acacia Ridge (pp 136-137), Gli insegnanti (pp 148-149), Il bianco, il nero (pp 154-155), Intolleranza (pp 158-159), Niente più boomerang (164-165), Gli espropriati (pp 230-231), E noi andiamo (pp 244-245). Ed è proprio con una delle sue poesie politiche che chiudiamo questo assaggio, Australia bianca (pp 134-135):
Sin da quando ebbe inizio il bel mondo di Dio,
non Dio ma uomini senza Dio
Crearono barriere e divieti,
E innalzarono ogni muro di frontiera.
Fratelli, quando vedremo mai
Una generosa democrazia?
La vita è fatta per la libertà,
E la terra fu creata per tutti.
Lasciate i piccoli razzisti gracchiare,
ottusi e arroganti,
Nel loro gergo sciovinistico
Che dice che l’esser bianchi è nascita più nobile.
Il meglio di ogni razza
Dovrebbe qui trovare il benvenuto;
Il colore della faccia
Per nessun essere umano è prova di valore.
Siamo oggi immersi in quella “generosa democrazia” che la nostra poetessa auspicava? Se pensiamo alla cerimonia di apertura dei giochi olimpici che nel 2000 si sono svolti proprio in Australia sembrerebbe di sì, ispirata ad un sentimento di riconciliazione, e simboleggiata dall’ultimo teodoforo, Cathy Freeman, aborigena, che ha acceso il fuoco del grande braciere. C’è chi ha notato che non basta uno show a risolvere i problemi ancora insoluti, ma di certo tra il 1970 ed il 2022 molte cose sono cambiate, non soltanto grazie ai diritti acquisiti, ma anche per il riconoscimento delle terre ai natii e per una maggiore integrazione nella società. In un modo o nell’altro, comunque, leggete Oodgeroo Noonuccal.
* Alcheringa: il tempo del sogno, ovvero l’età mitica nella quale gli esseri supremi, emersi dalle viscere della terra, crearono ogni cosa.
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Tiziano Fratus abita in una piccola casa ai margini del bosco, medita, legge, scrive e ascolta la natura. Nel suo peregrinare ha esplorato le foreste maestose per cucire i capitoli di una storia umana, arborea e spirituale e ha coniato concetti quali Homo Radix, Dendrosofia e Bosco itinerante. In California ha perlustrato i più vasti, alti e annosi alberi del pianeta, in Giappone ha visitato templi, canfori millenari e isole-foresta, in Italia incontra i patriarchi vegetali presenti nelle città, nei boschi, nelle riserve, sulle montagne e nei giardini storici. In vent’anni di scrittura e labòrio ha composto silvari, collezioni di alberografie, quaderni di meditazione, raccolte di poesie, romanzi forestali e fiabelve gotiche. Fra le sue opere si ricorda Giona delle sequoie (Bompiani). Le sue opere sono pubblicate da editori quali Mondadori, Feltrinelli, Bompiani, Einaudi, Laterza e altri. Sito: Studiohomoradix.com
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