ORFANZIA | Athos Zontini
Bompiani 2016
Un esordio convincente quello di Athos Zontini, Orfanzia è un romanzo intenso, una storia che è di tutti i tempi e di tanti luoghi, piantata nella radice del bene più alto, quello genitoriale. Una ammirevole capacità di tradurre l’incomunicabilità, così come il confine labile tra immaginazione e realtà, realtà che agli occhi di un bambino può apparire come un infernale mostro pronto a ingoiarti e riportarti negli abissi delle viscere primordiali. Un equilibrio precario, quello della famiglia, che appare tanto una roccia sulla quale puntellare il destino di un albero che ascende alla vita, quanto crosta urticante di una crescita faticosa e priva di riferimenti. La scrittura di Athos Zontini coinvolge, tiene con efficacia le fila del ritmo, apre scenari di vita quotidiana che appaiano allo stesso tempo normali e carichi di sentimenti disturbanti. Non c’è buonismo, né giudizio, né una soluzione possibile offerta, questo è quello che si osserva attraverso gli occhi dell”infanzia” che può sentirsi orfana, tradita e non accolta.
Incisivo l’incipit: “Niente mi ha fatto male più dell’amore”, l’amore e il bene portano, a tuo avviso, in sé il seme del male?
Il punto, per dirla con Carver, è di cosa parliamo quando parliamo d’amore. In Orfanzia racconto di due genitori ossessionati dall’idea che il figlio debba diventare quello che vogliono loro, anche a costo di rovinargli la vita. Quanto di più lontano dall’amore insomma. Ma i genitori del romanzo sono anche persone profondamente infelici, il loro matrimonio si regge a stento in piedi, sono ansiosi, nevrotici, non fanno che litigare. Ecco, forse è l’infelicità a portare in sé il seme del male. È chiaro che nessuno è del tutto felice o infelice, ma quando si lascia proliferare troppo e per troppo a lungo la scontentezza, la noia, la piccolezza, la vita rischia di diventare qualcosa di insopportabile, e allora ho la sensazione che sia difficile riuscire a voler bene a qualcuno, fosse anche un figlio, che è la forma più estrema e potente d’amore.
Si dice che uno scrittore guardi spesso al suo mondo interiore, quanto hai attinto dalle tue esperienze personali o reali?
Poco per quanto riguarda la narrazione, i fatti. Non è un romanzo autobiografico anche se ci sono dei piccoli furti alla mia vita – i cani per esempio, sono modellati su due cani che avevo da bambino – ma sono furti funzionali, a favore di una scenografia realistica. Sono cresciuto in una famiglia molto diversa da quella che racconto. I miei genitori si sono separati quando avevo pochi anni. In casa eravamo io, mia madre, i nonni materni e uno zio, il fratello di mia madre. Paradossalmente ho avuto più di un padre e una madre. Quanto alla premessa che sostiene il romanzo – l’attitudine irrimediabilmente cannibalesca della famiglia – è chiaro che anch’io non ne sono immune, ma credo che nessuno lo sia.
Ci racconti di un “adulto” che avanza ipertrofico in uno spazio di identità infantile fino a essere oltremodo castrante, ma il mestiere di genitore non si impara che con l’errore, che ne pensi?
Sono d’accordo. D’altra parte non volevo scrivere un romanzo contro la famiglia. Anche se utilizzo un contesto familiare grottesco, il bersaglio non sono i genitori, a cui va tutta la mia comprensione, l’ammirazione e la tenerezza per la difficoltà del ruolo che sono portati a reggere. Orfanzia è piuttosto un racconto sulla libertà, che va difesa da chiunque, anche da chi è convinto di agire per il nostro bene.
Hai una ammirevole capacità di scavare nei personaggi di restituirceli oserei dire “tangibili” sovrapponibili a figure vicine e quotidiane, quanto incide il tuo lavoro di sceneggiatore in questo?
In televisione ho la fortuna di lavorare da anni esclusivamente con Un posto al sole. Dico fortuna perché un prodotto seriale e quotidiano come Un posto al sole è costruito su una grande quantità di personaggi, molti dei quali sono entrati nella serie vent’anni fa. Questo significa aver gestito, come sceneggiatore, un bambino di cinque anni che oggi ne ha venticinque. Dei trentenni che oggi vanno per i cinquanta. Così come dei padri di mezz’età che ora sono diventati nonni. In questo senso parlavo di fortuna: non capita spesso di poter seguire dei personaggi in un arco di crescita così ampio, quasi in tempo reale, giorno dopo giorno. Lavorando poi in una squadra di sceneggiatori, sono abituato a tenere conto del punto di vista degli altri, che a volte ovviamente contrasta col mio. E questa è una grande risorsa per non vedere il mondo solo con i miei occhi. Aiuta a non dare nulla per scontato e soprattutto ad arricchire i personaggi, scavare sempre più a fondo nelle loro personalità inseguendo quell’illusione, propria di qualsiasi forma di scrittura, di trasferire sulla carta qualcosa di vero, al di là del tipo di narrazione, sia essa realistica o fantastica.
Mi ha colpito di recente questo passaggio nel libro Scrivere pericolosamente / James Joyce Riflessioni su vita, arte, letteratura minimum fax 2011 a cura di Federico Sabatini, “Più ci atteniamo ai fatti e cerchiamo di fornire una impressione corretta, più ci allontaniamo da ciò che è significativo. Nella scrittura occorre creare una superficie continuamente cangiante dettata dall’umore e dall’impulso del momento, diversamente da quello che accade nell’umore statico dello stile classico… in altre parole dobbiamo scrivere pericolosamente…”. Come interpreti questa affermazione se la condividi?
Quando scrivo sono attratto più dai miei dubbi che dalle certezze. Quanto più mi allontano dal quotidiano e mi perdo, più mi appassiono alla storia che sto raccontando. Anche con Orfanzia, sono partito da un meccanismo che faceva coincidere metafora e narrazione: un bambino convinto che tutti i genitori crescano i figli per ucciderli e mangiarseli. Da lì ho continuato a scrivere senza chiedermi dove mi avrebbe portato la storia, affrontandone gli sviluppi ogni giorno, sulla pagina. Sapevo solo che non volevo scrivere un romanzo psicologico, descrivere un’ossessione patologica. Il bambino vede il mondo così, dunque il mondo è così. Non si tratta del mondo che abitiamo ogni giorno, ma non è neppure un mondo fantastico, in senso letterario, dove accadono cose che potrebbero accadere solo oltre il perimetro del reale. È un territorio sospeso, in bilico tra possibile e impossibile, e mentre ti perdi a esplorarlo, quindi a raccontarlo, succede che finisci per parlare comunque del quotidiano ma attraverso un’altra lingua, quella dell’immaginazione, che invece di spiegare, evoca. Faccio un esempio, anche un po’ ardito, attraverso due testi molto diversi ma che hanno anche tanto in comune: il primo è La cripta dei cappuccini, di Joseph Roth, romanzo bellissimo e realistico che racconta il progressivo decadimento di un’aristocratica famiglia viennese a cavallo tra le due guerre. L’altro è un racconto breve di Cortàzar, Casa occupata, in cui due fratelli che abitano da soli in una grande casa – una casa antica, la dimora di una famiglia benestante – sono costretti a ridursi a vivere in spazi sempre più piccoli perché qualcuno, delle persone che non vediamo mai e non sapremo mai chi sono o quanti sono, occupano l’appartamento conquistando sempre più stanze finché i due fratelli devono fuggire e abbandonare la casa. Non c’è alcun giudizio di valore in questa distinzione – come lettore, per motivi diversi, amo Roth quanto Cortàzar – ma Casa occupata è una forma di scrittura che mi trascina di più perché porta alle estreme conseguenze un meccanismo coerente nella sua follia. Un intento che ha a che fare con la pericolosità della scrittura, intesa come l’avventurarsi in quei territori da cui potresti non uscirne. Dove ogni giorno, mentre scrivi, sperimenti la tua capacità d’espressione, di trasposizione del tempo in cui vivi, fallendo un’infinità di volte finché non trovi il modo per mettere in parole qualcosa che gira sottopelle, tra la testa e lo stomaco, che assomiglia a una sensazione in cerca di un nome, e ha già un nome, deve averlo per forza, se è vero, come dice Sciascia, che i nomi sono le cose stesse.
Quali sono le opere e gli autori che ti hanno formato come scrittore?
Per brevità vado di getto, sapendo di trascurarne tanti: uno dei primi amori da piccolo è stato Verne, che ho riletto anche quand’ero più grande e mi è sembrato comunque bellissimo. Collodi è un altro scrittore che ha avuto un peso, anche lui sia da piccolo che quand’ero più grande. Altri autori importanti sono stati Celine, Hrabal, Kafka, Bernhard, Canetti, Cortàzar che ho già citato, Rulfo, Borges, Saramago, Fitzgerald, Salinger, Fante, Landolfi, Svevo, Ceronetti, Flaiano, Celati… Dei romanzi a cui invece ho ripensato molto di recente, dopo aver scritto Orfanzia, sono la Trilogia della città di K di Agota Kristof, Mr Vertigo di Paul Auster e Il signore delle mosche di William Golding. Per motivi diversi credo che abbiano avuto un’influenza speciale mentre scrivevo. Forse per via di certi stati d’animo che mi hanno provocato quando li ho letti o per questioni di ammirazione verso la scrittura, l’impostazione narrativa, la chiarezza e la potenza dell’idea di fondo. Non so, davvero, ma mi capita di continuare a citarli quando mi chiedono dei riferimenti per Orfanzia
.
Quale metodo ti dai nella scrittura? Scrivi in modo immediato e poi rivedi oppure lavori subito nel dettaglio?
Ci sono varie fasi. Intanto ho bisogno di una premessa per cominciare a scrivere, un concetto, un’idea da trasferire, a volte anche in modo sotterraneo, ma costante, nel testo. Stabilito su cosa deve girare la narrazione, imposto una breve struttura, individuo i nodi narrativi che portano avanti la storia e l’evoluzione del pensiero sottostante. Faccio un lavoro di architettura insomma, ma in modo quasi infantile, senza costruire troppo per non avere argini, perimetri troppo vincolanti. Da quel momento scrivo, entrando nel dettaglio quanto più possibile, e appena finisco un capitolo, prima di proseguire, lo rileggo e taglio, pulisco, cerco sintesi e suono. Ma non è un sistema scientifico a dire la verità, ci sono giorni in cui devo andare solo avanti, ho bisogno di quello. Altri in cui devo rivedere e non scrivo nemmeno una pagina se prima non ho messo a posto il lavoro precedente. Certe volte revisionare diventa uno spunto creativo per il seguito. Ci sono racconti molto brevi su cui sono stato mesi e lunghe parti di Orfanzia che invece sono venute fuori di getto. Difficile quindi parlare di un metodo, forse ce n’è uno diverso per ogni cosa che ho scritto.
Degli scrittori del panorama letterario attuale, italiano e straniero, chi apprezzi maggiormente e perché?
Anche qui i nomi sarebbero tanti. Tra gli stranieri ho un debole per Geoff Dyer – e prima di lui, inevitabilmente, per John Berger. Non mi appartiene ma mi piace molto il loro tenersi sempre alla larga da ogni forma di genere. Carrere è un altro scrittore che leggo con piacere. Di Murakami non amo tutto, ma ci sono certe pagine formidabili, come le prime dieci di 1Q84, la scena nel taxi. Quando la lessi mi sembrò stilisticamente perfetta. Di Bret Easton Ellis il libro che mi ha entusiasmato di più è stato Lunar Park, forse un romanzo minore tra i suoi, ma a me è piaciuto da morire. E poi De Lillo, che forse è tra i miei preferiti, Paul Auster e Foster Wallace, di cui ho amato davvero molto i racconti… Tra gli italiani, tra i tanti bravi, faccio solo due nomi per la loro irregolarità: Antonio Moresco e Davide Morganti.
Il 13 Ottobre scorso è stato un giorno particolare, ci ha lasciato un grande della cultura italiana Dario Fo e allo stesso tempo Bob Dylan vince il Nobel per la letteratura, si può dire che in entrambi i casi i meriti letterari siano stati declinati in molti altri linguaggi, la musica, il teatro, cosa ne pensi?
Sono stato contento per il Nobel assegnato a Dylan, ma per questioni intime, personali. La musica è sempre stata una passione forte, e Dylan è uno dei musicisti che ho scoperto quand’ero molto giovane e non ho mai smesso di ascoltare. Per l’esergo di Orfanzia d’altronde, ho scelto il titolo di una sua canzone. Tolte le mie motivazioni sentimentali però, questo Nobel a Dylan – se vuoi anche un po’ forzato dal momento che non è uno scrittore in senso stretto e ce ne sarebbero tanti meritevoli di questo riconoscimento – trovo sia un gesto irripetibile e sono felice che l’occasione non sia andata persa. Difficilmente potrà esserci un musicista, un cantautore, con un impatto sociale paragonabile a quello di Dylan. E non per mancanza di talenti, non perché Dylan sia in assoluto il più bravo o il più “letterario”, ma perché i tempi non lo concedono più. La musica – lo dico senza intenti nostalgici, come constatazione – ha smesso di avere l’effetto incendiario, quella capacità di smottamento, che ha avuto tra gli anni ’60 e la fine degli anni ’80. È come se il Nobel lo avessero dato non solo a Dylan, ma alla musica di quegli anni. A quella capacità che ha avuto la musica di assolvere una funzione propria della letteratura e che Dylan ha incarnato come nessun altro: raccontare il mondo, la vita, e combattere quello che non ti piace, attraverso il potere poetico, quindi rivoluzionario, delle parole.
Che rapporto hai con i social e la comunicazione digitale?
Utilizzo mail e cellulare, un po’ come tutti. Recentemente ho introdotto Whatsapp ma tende a snervarmi facilmente: non capisco perché le persone mandino frasi spezzettate in vari messaggi invece di scriverne uno solo più lungo. Con i social invece non ho praticamente nessun rapporto. Sono iscritto a LinkedIn ma è successo un po’ per caso e non lo uso mai. Non sono iscritto invece a Facebook. Ci ho anche provato anni fa ma ne sono uscito dopo una settimana, c’era troppa gente che postava foto della propria cena o delle vacanze come se fossero momenti memorabili. Mi annoiava e mi faceva anche un po’ di tristezza.
Vivere sostenibile ed eco-sensibilità individuale, quali azioni pratichi come atto di responsabilità verso il pianeta?
Mi piace non avere la macchina, ho un motorino ma giro a piedi ogni volta che posso. Qualche volta in bici, anche se a Napoli non è facile con tutte le salite che ci sono. Evito il più possibile di comprare prodotti alimentari industriali: non sopporto le confezioni, tutta quella plastica, alluminio, carta, che non appena arrivo a casa finisce subito nella spazzatura. Compro a volte, ma mi fanno arrabbiare, i prodotti biologici: vorrei che ci fosse scritto non-biologico sugli altri, e non il contrario. Non ho un condizionatore in casa e non mi piace vederli sporgere dai palazzi, li trovo osceni e la bellezza è una cosa importante. Insomma non faccio niente di eroico, piccoli gesti di buon senso quotidiano, cercando di mettere d’accordo quello che trovo giusto con quello che mi fa comodo. Di solito vince quello che trovo giusto, ma per ragioni di interesse: se faccio solo quello che mi fa comodo poi mi sale una sorta di malinconia che non sopporto. Perché non c’è niente di peggio che avere a che fare con la propria meschinità, fa sembrare la vita un po’ più brutta di com’è davvero. Allora ho imparato a sbilanciarmi dall’altro lato: meglio credere che la vita sia un po’ più bella di com’è veramente. Aiuta per esempio di notte, quando non riesci a prendere sonno e sai che il giorno dopo devi alzarti presto e se non dormi poi sarai uno straccio. Ma non fa niente, perché sei ancora in credito di quella quota di bellezza immaginaria che hai aggiunto arbitrariamente alla tua visione del mondo e puoi concederti anche una notte in bianco senza che vada tutto in pezzi.
Nota Biografica
Athos Zontini è nato a Napoli nel 1972. Ha lavorato come autore radiofonico, occupandosi di musica. Oggi fa lo sceneggiatore televisivo. Orfanzia è il suo primo romanzo.