Pensare vegetale | di Ezio Sinigaglia
Sotto questo titolo viene qui presentato un testo tratto dal romanzo inedito Sillabario all’incontrario, una sorta di autoanalisi organizzata in 21 capitoli, uno per ogni lettera dell’alfabeto: andando alla ricerca della causa di un misterioso malessere, si parte – “all’incontrario” – dalla Z per arrivare, dopo un viaggio piuttosto avventuroso, alla A. Queste due lettere, la V e la U, rappresentano dunque la seconda e la terza tappa dell’itinerario. Il libro fu scritto negli anni Novanta, quando l’autore viveva in Sardegna, e ha per teatro un tratto del litorale compreso fra Cagliari e Villasimius, e i colli subito retrostanti. (ndr)
V come Vegetazione.
«È un vegetale» si dice dei malati terminali o dei sessantottini imborghesiti, di chi vive ormai solo di flebo o di pantofole. Un’espressione davvero stupida, infamante per gli alberi ed i fiori. Un’ennesima prova della limitatezza della vista umana, dell’ottusità quasi fiabesca della specie. Da parte mia sono persuaso che quella vegetale sia la forma di vita più felice, più intensa e più gioiosa su questo tragico pianeta. I vegetali: loro sì, che sanno vivere! Nella nostra ansia di movimento a tutti i costi, nel nostro infantile dinamismo, li disprezziamo perché stanno fermi. Non cambiano indirizzo, poveracci. Non vanno mai in vacanza. Non salgono e non scendono le scale. Non fanno a botte, non si prendono a cornate per la leadership del branco. Sembrano perfino poco interessati all’affermazione della loro personalità individuale. Come distinguere, in un ginepraio, un ginepro dall’altro? Ma il loro dinamismo è tutto di testa, come quello dei saggi, degli yogi. Di testa, non di piedi. Affondano le radici nel punto che il destino gli ha assegnato. Lo accettano, il destino, senza protestare. Ne succhiano gli umori. Trovano l’acqua, anche nel deserto. Qui, di certo, la trovano. Apparentemente ce n’è poca. In superficie. Ma, sottoterra, c’è acqua dappertutto. Loro sanno trovarla. Viene su tutto, qui, qualsiasi cosa: basta lasciar cadere un seme, anche per sbaglio: crescono foreste. Se poi piove, come quest’anno, bisogna aprirsi la strada col machete. È uno spettacolo stare a guardare come si muovono le piante, come muta di continuo lo spazio che le ospita, che invadono. Dove ieri c’era un insignificante cespuglio di sterpi, oggi puoi trovare un’esplosione di fiori, un trionfo di giallo o di azzurro, improvviso come un’idea, come un’illuminazione. Prendi l’asfodelo, fiore dal passato cimiteriale. L’asfodelo, per tutto l’anno, non è che un gambo trascurabilissimo, un tubicino di materia organica verdastra che se ne sta lì, dritto non si sa ben perché, a far cosa. Un nulla, fra gli ulivi, i mandorli, i mirti ed i lentischi: come un pelo pubico, dal quale la vista non è minimamente attratta: al contrario, distratta da attrazioni ben più forti, lo oltrepassa fino ad ignorarne del tutto l’esistenza. Questo, per undici mesi, è un asfodelo. Un pelo della terra, e niente più. Poi, d’un tratto, fiorisce. Qui succede nel tardo gennaio, e dura a stento fino al far di marzo. Una mattina imbocchi il solito sentiero e – miracolo – lo trovi cosparso di asfodeli. Tutti fioriti, bianchi senz’esser troppo bianchi, senza dar nell’occhio individualmente, ma solo nell’insieme. Il paesaggio ne è trasformato a un punto che ti può cogliere il sospetto d’esser morto e di star camminando sulle nuvole. Non riconosci più le stesse svolte, gli stessi arbusti torti, gli stessi formicai. Ora l’asfodelo assume un’importanza preponderante, enorme, l’occhio vede solo quello, fugge d’asfodelo in asfodelo fino alla cima del colle, misura i passi calcolando le distanze da fiore a fiore. Sarebbe come se i peli del pube dell’amante, un bel giorno, si facessero d’oro o di diamanti o di rubini, scintillassero al punto di trasformarsi nella vera attrazione della zona. Animalmente, non accade. Vegetalmente, sì. Mi sembra interessante, la creatività della natura vegetale, paragonata alla ripetitività dell’animale. Ho fantasie botaniche, talvolta. Ho ammirazione e invidia per le piante. Sul ciglio della strada, ad un tornante, cinquanta metri sotto casa mia, è morta un’agave, quest’estate. Ha slanciato il suo fiore verso il cielo, e si è afflosciata, slabbrata, abbandonata al suolo. Ecco un individuo per il quale si potrebbe osare spendere quella frase così vuota e retorica, perlopiù, quando si applica agli umani: morire per un’idea, per un progetto. Realizzarlo, e passar oltre, oltre il confine. Le piante hanno una testa, questo è il fatto, e in testa hanno un concetto di bellezza che fa venire i brividi. Il loro dinamismo estetico è umiliante, bruciante, mi lascia senza fiato. Però è un conforto indicibile, la bellezza della natura vegetale. L’occhio e l’anima vi si placano. Nel mio giardino, a un passo dal muro della casa, c’è un gran mazzo di canne, alte, compatte, serrate l’una contro l’altra come fossero legate da uno spago. In cima, tanti piumini, uno per ogni canna. Pennacchi soffici, leggeri, impalpabili, fatti di milioni di fil di nulla ammassati insieme. Un colore vago, prevalentemente di paglia, appena un po’ più carico, ma cangiante al cangiar della luce, rossastro nei crepuscoli, bruno nei temporali, quasi candido alla luna. Tentennano, di continuo. Hanno così poco peso che anche nelle bonacce trovano il soffio che li faccia palpitare. Sotto il levante, che li investe in pieno, si scarmigliano. Le canne si piegano e li gettano indietro come chiome spettinate. Poi si raddrizzano, si gonfiano, si assottigliano, tornano a slanciarsi all’indietro teatralmente, tragicamente, come in preda alla disperazione, sull’orlo di una disfatta rovinosa. Passato il vento, stanno ancora là, belli, ricchi, schiumosi, sovrabbondanti di materia senza peso. È difficile convincersi che non abbiano occhi per vedersi, che la loro bellezza semplice e complessa sia il frutto di una necessità cieca e non di una raffinata disciplina estetica. La vista interiore delle piante è il mistero più affascinante che ci sia. Forse lì sta davvero il seme del divino, a conti fatti. L’universo, su larga scala, è ripetitivo in modo nauseante. Guardar le stelle, adesso che sappiamo grosso modo cosa sono, non fa più pensare a Dio. Immaginare che ci sono milioni di miliardi di galassie, che contengono miliardi di miliardi di stelle, tutte fatte di idrogeno e di elio, con varianti che si contano sulle dita di una mano e che sono legate più all’età che alla natura, non mi fa pensare a Dio. No, assolutamente. Mi fa pensare alla pazzia, alle fissazioni paranoiche di certi megalomani. Una vera fissazione, quella proliferazione di palle tutte uguali. Una decina ne bastava, per affermare un principio, per dare vita a un gioco. Nel complesso, l’universo mi sembra di cattivo gusto. A differenza della natura vegetale. Questa sì, che è di buon gusto. Anzi, da qualche tempo mi sono persuaso che sia l’unica cosa di buon gusto ad essere rimasta, la vegetazione. Forse per questo l’umanità vi si accanisce con una simile ferocia. Perché l’umanità non ha buon gusto.
U come Umanità.
Da quando abito in Sardegna il mio rapporto con l’umanità si è profondamente trasformato: al momento attuale è l’esatto rovescio della relazione che corre fra Maometto e la montagna. Non vado io dall’umanità: è l’umanità a venire da me. Succede a tutti gli eremiti. L’umanità è un fastidio non da poco. Ora che me ne sono allontanato, vedo con chiarezza abbacinante quanto sia fastidiosa, ingombrante, invasiva, maldestra e catastrofica. La Sardegna è in qualche modo un terreno di coltura ideale per lo studio dei comportamenti del batterio Uomo. Qui tutto è più violento, più forte, più luminoso e contrastato: il sole e le tempeste, il vento e le bonacce, la bellezza e l’orrore, la dolcezza e la ferocia. In questo quadro dal cromatismo così fondamentale, elementare, l’uomo non si cura affatto di edulcorare o di dissimulare la sua natura barbarica o, meglio ancora, la sua barbarica estraneità alla natura. Non ci sono, qui, cuscinetti illusori che ammorbidiscano l’impatto apocalittico dell’uomo sull’ambiente, dell’uomo sulle altre specie viventi e su sé stesso. Di certo, non c’è altra regione italiana dove la natura sia altrettanto spettacolosa ed abbia altrettanto spazio a sua disposizione ma dove, al tempo stesso, gli spazi che l’uomo ha riservato a sé siano altrettanto brutti, sfrontati ed offensivi. I paesi, più ancora delle città, sono mostruosi: nient’altro che edifici gettati alla rinfusa l’uno accanto all’altro, senza alcun simulacro di piano o di progetto. Casi, più che case. Casi orrendi, di mattoni non intonacati, sulle cui facciate ributtanti scintillano nel sole gli allumini anodizzati delle finestre, dei portoni. Questi casi sono cresciuti dovunque così a caso che molte strade non disegnano una linea riconoscibile, riproducibile: serpeggiano, si allargano, si stringono, accolgono protuberanze e nicchie, si tuffano in laterali sterrate, che conducono a casi ancor più nuovi, ancor più brutti, sporti avidamente alla campagna. Qui più che altrove risulta facile, se solo si ha coraggio, datare la rovina: tutto ciò che è stato costruito prima del 1940 ha una sua dignità, magari miserabile, una sua nuda discrezione; tutto ciò che è stato costruito dopo il 1945 è di un’oscena, inqualificabile, irresponsabile bruttezza. Segno evidente che l’arma della quale l’uomo si serve per distruggere il pianeta è il denaro. Effetti se possibile ancor più massacranti il denaro ha prodotto e continua a produrre lungo il litorale. Il denaro, alleandosi all’imbecillità, riesce a ribaltare tutti i dettami della logica e a innervosire perfino l’aritmetica. La stagione turistica, in Sardegna, è particolarmente breve, come sanno tutti. Ci sono decine o forse centinaia di migliaia di cubi di cemento che stanno qui tutto l’anno, a offendere la vista, per dar riparo a quattro persone in quindici giorni di canicola. Un periplo dell’isola, ben sottocosta, sarebbe assai istruttivo: il contrasto fra i colli intatti e quelli che mostrano sfacciatamente al mare i loro ameni villaggi balneari sintetizzerebbe con muta efficacia la differenza di stile fra la natura e l’uomo. Si perde ogni speranza, vivendo in un paradiso come questo, eccetto quella di morire prima di essere costretti a scappar via. Si perde ogni speranza, dico, in un’eventuale redenzione della specie. Non c’è niente da fare, niente. L’umanità è mossa da un odio insondabile e feroce contro tutto ciò che può esser sospettato d’essere bello, pulito e dignitoso. Agosto porta valanghe di umanità sulla mia spiaggia, e valanghe di rifiuti. I rifiuti sono il simbolo e la nemesi della nostra civiltà, del destino tragico e distruttivo della specie. Sono la spia della presenza di homo sapiens. La proporzione fra quantità in volume delle deiezioni e densità della popolazione umana è così immancabile e perfetta che – io credo – dal punto di vista della fauna selvatica, umanità e rifiuti si identificano ormai completamente. E, a conti fatti, anche dal mio.
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Ezio Sinigaglia è nato a Milano nel 1948. Ha svolto diversi mestieri, tutti legati alla scrittura: redattore, traduttore, fotocompositore, copywriter, ghostwriter, autore di guide turistiche e, da ultimo, docente di scrittura all’Università di Milano Bicocca e in altre sedi. Dopo Il Pantarèi (1985), ha continuato a coltivare in privato la sua voce narrativa, mentre quella saggistica ha occasionalmente trovato la via della pubblicazione, e ha tradotto alcuni libri dal francese. Dopo trent’anni dal suo esordio, Nutrimenti ha dato alle stampe un suo nuovo romanzo, Eclissi (2016), che a febbraio 2020 è risultato vincitore del concorso Modus Legendi. Nel 2019 la casa editrice TerraRossa ha ripubblicato Il Pantarèi e nel 2020 ha fatto uscire L’imitazion del vero, candidato al Premio Strega.
Il suo sito è eziosinigaglia.it.