Per la bambina
Racconto di Vincenzo Corraro
Parlava con voce ferma e raggelata, e in quei giorni di tormenta un sibilo cupo – che riempiva i porticati di pietra a vista e sbatacchiava le lamiere di zinco dei pollai – interrompeva la comunicazione. Telefonava prima dell’alba per raccontarmi che la notte non chiudeva occhio e che imbambolato contava i tuoni e i passi per la casa, oppure infilava la testa nella cappa del camino e sopra a un letto di tizzoni scioglieva la sinusite.
Ci impressionava, in quei giorni, la durevolezza della pioggia più che la furia dei temporali. Un cielo mai visto, fitto di nebbia bassa e nuvoloni bluastri, aveva accerchiato la montagna e la svenava. Non esisteva più un metro d’argine sui canali ingrossati, il fiume ingoiava qualsiasi cosa e le strade erano piene di fanghiglia che arrivava, in certi punti del paese, alle zoccolature delle case.
Mi chiedeva di segnargli la giornata e io, a cuor leggero, per incomodare il caporale, salivo con quel tempaccio fin sopra alle tagliate, nei punti dove si approntavano gli uffici e si ammucchiava il legname che, con l’aria delle alture, doveva stagionare; ma l’imbasciata mi si ritorceva puntualmente contro, manco fossi io quello che arrancava scuse nel montare di turno al piazzale, mettere in moto il muletto e cominciare le sue benedette otto ore. Tenevamo asciutte solo le motoseghe in quel pantano, al riparo dai lampi che scaricavano indiavolati sugli alberi, facendoli esplodere; il caporale, persona mediocre e pusillanime, si scagliava contro Ernesto ormai in automatico, specie se questi metteva avanti la bambina anemica in ogni ragionamento e la solfa di quei viaggi a Roma in un centro specialistico per delle costosissime sedute di ferro. Poi, con quella bizzosa primavera che rovinava gli affari e imporriva gli alberi in germoglio gonfiandone le venature, era diventato intrattabile: chissà dove se ne sarebbe scappato quelle mattine di marzo pur di non passare in rassegna cataste e cataste di legname, che sarebbero rimaste invendute o pagate quattro soldi per il truciolo e il riciclo. E per quelle torme di uomini che sbattevano senza far niente i tacchi in mezzo alla brughiera aveva risolto la questione montandogli nelle baracche l’antenna wi-fi e una cucina economica per farsi una pasta: tutto gli permetteva, anche di dire le più atroci malignità sulla ditta o di passare gozzovigliando le giornate, purché non gli creassero casini col principale o salissero agli uffici a braccetto con qualcuno del sindacato.
Naturalmente la buttava col cuore anche quel giorno, un vento d’acqua soffiava costante. Ernesto sembrava cuocersi in un paziente fuoco d’attesa, la fronte increspata, una faccia di malavoglia. Il brulichio palpabile, negli occhi, di chi lavora sempre a una via di fuga. Non si doveva proprio partire, ma il principale voleva fare bella figura con certi clienti nuovi con cui era in trattativa per quaranta ettari di rovere e cerri, lotti comodissimi da lavorare, e la consegna voleva che avvenisse puntuale. In momenti di emergenza poteva sempre fare affidamento su quel buono del caporale e il veterano Ernesto, un tempo una delle coppie migliori dell’azienda. In due facevano quasi cinquant’anni di bosco e per me era onorevole che imparassi il mestiere da loro, sebbene ultimamente stessero sempre a litigare e si portavano dentro rancori chissà quanto più profondi di quei vellicamenti in gola che si scambiavano al mattino al posto del buongiorno.
Nella cabina del trattore, pure quella volta, la tensione serrava le labbra. Ciò che succedeva tra i due io potevo solo supporlo, quell’aria densa e irrespirabile pareva amplificasse ancor di più il diluvio che sfondava la cappotta e gonfiava il telo dalle sponde. Un paio di chilometri appena e nella prima torbiera spoglia, il telo ce lo vedemmo passare, distante una piuma, come un aquilone sulle nostre teste. Andò a frantumarsi sulle rocce. “Paga Pantalone!”, marcò il caporale, impassibile dinanzi al pericolo scampato. Per il sussulto invece io andai a finire con la testa diritto sulle sue ginocchia, e vidi da vicino le sue mani grosse che forzavano lo sterzo per tenere ritto il mezzo e un ciuffo di peli bianchi che gli usciva dalla sbottonatura della camicia. Mi schioccò dall’alto un bacio, sfottendomi. Ernesto, seduto sulla ruota destra, sbuffava e fissava il nero del temporale. Man mano le cime boscose di lato sparivano come in un’eclisse.
Ma come oltrepassammo lo sperone, col muso in discesa, il mezzo – che scendeva già basculante mancando d’aderenza le ridotte e trascinandosi dietro il rimorchio stracarico a peso morto -, s’impantanò in una lecceta buia, rischiarata solo dal turbinio dell’acqua. La strada era uno sprofondo, non esisteva più, confusa dal letto del fiume che gli scorreva accanto. Già prima, con le ruote che scivolavano sul fogliame, avevo avvertito irrigidirsi la leva del rimorchio sotto le natiche e la stoffa dei sedili: la sensazione, da quando eravamo partiti, era quella di un accartocciarsi, di una spinta incontrollabile che la piccola motrice non riusciva a contenere, come se ci tirassimo dietro la montagna intera. Così il botto improvviso e secco fu anticipato da uno stridore sottilissimo, mentre un tramestio di metalli, che frustava sugli assali e il gancio, rintronò rauco per tutta la lecceta e fino alla sommità dell’erta; lo sterzo questa volta girava a vuoto e la faccia del caporale si fece seriamente preoccupata.
“Strade del cazzo!”, gli scappò e subito Ernesto si lasciò andare a un lungo grugnito di rivalsa: il trattore si era piantato proprio nel punto dove il comune aveva promesso di fare dei lavori di drenaggio e bitumazione della strada. Non perdeva occasione di scendere dall’Aventino quando il discorso finiva alla peripatetica sulle cose messe male (un anno si era presentato come consigliere comunale e il caporale non solo non l’aveva votato ma aveva imposto a tutti gli operai di dare la preferenza a un suo vecchio socio in affari), mordendosi il labbro soddisfatto che quel posto rimanesse per sempre maledetto.
“Forza! Se non vi siete lavati stamattina, è ora.”, disse rassegnato il caporale, spinto dal puzzo di frizione che aveva invaso la cabina.
Ernesto scese per primo con un balzo, saltò la fanghiglia che aveva raggiunto l’altezza delle ruote e si acquattò su una montagnola a sbalzo, oltre il ciglio della strada. Si accese una sigaretta sotto il k-way, sfidando la pioggia che gli rigava la faccia, ma l’estremità accesa non si spegneva. Ci fece segno che non c’era nulla da fare e scendemmo anche noi dal lato opposto. Col respiro affannato ci muovemmo verso il castello porta-gancio e ispezionavamo il danno. C’erano almeno venti tonnellate di legnatico in bilico sul rimorchio, un asse mezzo piegato e la catenella di ritegno che reggeva il perno era così tesa che, sotto la pioggia, aveva cambiato colore: vitrea e assottigliata, pareva stesse per esplodere da un momento all’altro.
Nel vedere quel disastro, mi ero portato le mani alle tempie, fino a stringermele forte. Ciò che mi colpiva, non era tanto la calma con cui i miei soci affrontavano le difficoltà, ma i discorsi sulla responsabilità e i doveri che tirava fuori il caporale, anche nei momenti più insensati: svuotava nel fango il cassone degli attrezzi e faceva la paternale, con velate reprimende nei confronti di Ernesto, pure se la pioggia pesante non concedeva un respiro di tregua. Ernesto lo guardava con atteggiamento di sfida, sprezzante, con due occhietti che dentro disegnavano un cielo più scuro di quello vero.
“Stai lontano, tu!”, mi comandò il caporale, facendomi pesare tutti i suoi anni di bosco. Si potevano vedere sotto il perno i due assi sganciati, quello della motrice e quello del rimorchio, uno sull’altro in parallelo, retti solo da quella flebile catenella. Un metro ancora e ci saremmo ribaltati. Col tremore alle gambe, feci due passi indietro.
“Saliamo su e scarichiamo la legna?” dissi urlando contro la pioggia. Dovevo alzare il cappuccio del giaccone per far sentire meglio la voce sotto quel fracasso. Ma inutilmente, nessuno dei due mi dava ascolto. Si guardavano in cagnesco, uno di fronte all’altro. Il caporale malediceva il principale, l’azienda e i clienti nuovi, gli erano venute su le angherie che in corpo inghiottiva e si sfogava, accecato da una rabbia improvvisa.
Mi spaventai. Il caporale richiuse il cassone degli attrezzi e tornò con la mazza. Aveva una voce rasposa: “Dagli un colpo secco e lasciamo qua il carico.” Ma Ernesto, che era dalla parte a monte del trattore, fece finta di non sentire, accarezzava un grosso cespuglio di biancospino che gli veniva di fianco, con il palmo della mano. Un azzardo della primavera, era quell’arbusto, con le cuspidi in fiore che resistevano alla levantina e alla nebbia gelata. Allora il caporale rifiatò e gli buttò la mazza sulle felci, quasi sui piedi, e Ernesto rimase impalato, come quando al bar lo vedevo che qualcuno lo chiamava, per provocarlo, a fumare alle macchinette e lui indolente si voltava dall’altra parte.
“Ti avevo chiesto un favore…”, disse Ernesto e tirava su col naso. Era diventato un tic, per via della sinusite.
“Un altro? Mettiti a fare bene, senti a me! Sai che sono stufo di montare sceneggiate con la ditta!”, lo guardava di sbieco e continuava a ripetere che si era esposto fin troppo e rischiava il posto.
“Lo sai che ho problemi.”
“Ma finiscila di mettere in mezzo quella povera carne innocente!”, e il labbro gli tremolava per il magone.
“Che ne sai tu dei cazzi miei?”, e lo aggrediva nell’aria elettrizzata, con una faccia che non sembrava umana proprio in quegli istanti che il cielo sfavillava sulle pallottole segnaletiche dei cavi dell’alta tensione e scaricava ancora con più foga. Si gustava il pretesto per mettere in pratica tutta la sua spietata ritorsione. Ernesto – il motivo si sapeva – era di certo l’astinenza dal gioco che lo rendeva così schizofrenico, così poco credibile pure se dava un passo. Era finito il tempo della morale e delle discussioni inutili sulle sue perdite; e pure se non si vedeva più, appostato come un avvoltoio, nelle sale gioco della valle, comunque andava sragionando perché era convinto che potesse levarsi i debiti vincendo.
“Quanto mi dai per la guardiania?”
Si era illuminato quando aveva adocchiato sul poggiolo, dietro le sue spalle, un ricovero forestale, con il tetto in buone condizioni e gli infissi da poco tinteggiati. È vero, la ditta stava subendo furti in quell’anno, c’era il divieto assoluto a lasciare i carichi incustoditi, ma diamine in quelle condizioni chi mai si sarebbe avventurato nottetempo a scaricare un rimorchio con venti tonnellate di tronchi di quattro metri l’uno?
“Spezza la catena e ne parliamo.”
“Gli accordi si fanno prima.”
“Ma dico, c’era il bisogno di andare da quella gente?”, e cominciava a testa china a tirare con l’argano la catena, e a tirare per farla più sottile di un’ostia consacrata così sarebbe bastato un colpetto con la punta della mazza e il rimorchio in tensione era bell’e sganciato.
“Allora?”, gridava Ernesto e non si muoveva.
“Sei un ingrato! Non dico altro per rispetto della bambina!”, per lo scoramento ruotava con meno ardore, ma oramai si sentiva il formicolio della catena che andava e ad ogni strappo di assetto degli anelli sul verricello, stiracchiati con giri flessuosi e regolari, abbaiavano nelle forre i cani.
La pioggia era diventata grandine, grossa e insolente. Tagliava in diagonale e faceva pure male. Il fiume usciva dall’ombra del costone e stava riempiendo la conca. Non si capiva se era giorno o notte. Da quanto tempo eravamo fermi. Però tutto mi veniva più chiaro, dall’irreparabile poteva scaturire qualcosa o concludersi in tragedia. Ernesto non teneva più discorsi appesi con la coscienza perché era passato dai Lombardi e quella era gente che non ti prestava un euro senza tornaconto. Si era veramente inguaiato. Perciò la notte la passava a riflettere nella cappa del camino e il caporale, che gli voleva bene, gli conteneva i danni.
Lo aveva incastrato un’altra volta. Il colpo lo doveva dare per forza Ernesto, la catena per effetto del rinculo sarebbe schizzata senza rischi a monte. Ci allontanammo: a noi, due metri sotto di quel pantano, se ci coglieva ci scavava il cranio. Lo stomaco del povero Luciano Marradi, per dire di un incidente simile avvenuto in località Nocella, lo avevano trovato aggrovigliato i cani dentro un arbusto di genziana.
“Spezza ‘sta cribbio di catena!”
“Il favore.”
Ero atterrito. Il caporale disse una cifra, balbettava per l’umiliazione. Come udii dire “Ci siamo” dalla voce di Ernesto, andai ad accucciarmi dietro un faggio, avendo cura che il busto coprisse interamente la testa. Chiusi gli occhi e mi tappai le orecchie, l’acqua gelata che scivolava sulla corteccia entrava nella tuta militare e dentro il petto. Mi scivolò nella pancia e urlai sopra al boato del rimorchio, che si assestava rovinoso in terra. I cani latravano senza freno, a intervalli regolari.
Ci misi un po’ a riaprire gli occhi quando mi sfilai dall’albero. Non vidi il caporale. Pensavo al peggio, la nebbia era infittita e la visuale era scarsa. Mi incamminai verso il rimorchio, lo ritrovai perfettamente in piano sui due lati, ingombrava tutta la strada. Nel fiume si erano formate delle onde, torbide e alte. Il carico era salvo, la piccola motrice liberata. Il caporale era già sul muso che sistemava gli attrezzi. Sopra la montagnola, stava Ernesto. Sotto un piede schiacciava la catena. Alzai il pollice per complimentarmi. Batteva il pacchetto delle sigarette su un palmo e mi fece un occhiolino d’intesa. Rise nel vedermi inzuppato, col petto che pulsava come quello di un pettirosso che tornava da un volo d’ispezione.
Lo lasciammo sotto il diluvio, a guardia di quel carico prezioso e dell’unico cespuglio già fiorito. Il biancospino teneva un buco in mezzo come se fosse passato, in quell’azzardo di primavera, precisa una bomba di cannone. Puntammo verso il paese e, sino all’officina, io e il caporale non proferimmo parola. A valle era come nel bosco: pioggia che arrivava al midollo, vigne e alberi sfasciati, parapetti trasportati dalla piena. I lampi avevano fatto saltare la corrente e il paese, al buio, ci veniva incontro dentro una bolla di cenere e vapore. Continuai a sbattere i denti, ma non per il freddo: pensai che veramente doveva essere la propizia stagione della sua sorte, se quella catena che aveva sconquassato il biancospino, schizzata via dal trattore come una molla, lo avesse mancato d’un soffio.
Vincenzo Corraro, nato a Viggianello, sui monti del Pollino, nel 1974. Ha scritto il romanzo Sahara Consilina (Palomar), con cui ha vinto il premio “Nati 2 Volte” per l’opera prima. Alcune sue storie sono apparse sul sito di scritture creative booksbrothers.it, sulla rivista letteraria online CrapulaClub, nelle antologie Frammenti di cose volgari e Unonove. Del 2016 è la raccolta di racconti (con Margi De Filpo), Dimmi che c’entra la felicità (Ensemble). Da sempre concilia il tarlo della scrittura con l’impegno politico. Vive e lavoroa come insegnante nella sua terra d’origine.