Plastica di ritorno: il progetto Archeoplastica
di Franco Sacchetti
“L’idea è maturata quando ho trovato per la prima volta un rifiuto di fine anni ’60. Si trattava di una bomboletta spray ‘Ambra Solare’ con il retro ancora leggibile che riportava il costo in lire. Un rifiuto di oltre cinquant’anni fa! Quando pubblicai la foto su Facebook scoprii lo stupore della gente nel vedere un prodotto così vecchio ancora in buono stato tra i rifiuti in spiaggia. E da quel post scaturirono dai lettori tante riflessioni sul problema della plastica. Da quell’episodio ho iniziato a raccogliere sempre di più e a mettere da parte tutti i prodotti vintage di un’età variabile dai trenta ai sessant’anni. Ho imparato a riconoscerli e fino ad ora ho raccolto oltre 200 reperti databili tra gli anni ’60 e gli anni ’80. Alcuni sono davvero spettacolari e riportano ben in evidenza la scritta in lire oltre ad avere uno stile retrò particolare. Così è nata l’idea di sfruttare il potenziale di questi vecchi rifiuti nel suscitare riflessioni sull’inquinamento da plastica del nostro mare. L’obiettivo è quello di raggiungere una maggiore consapevolezza sul problema da parte della gente. Una maggiore consapevolezza può portare ad assumere un diverso atteggiamento nell’uso che si fa della plastica”.
Con queste parole Enzo Suma, guida naturalistica di Ostuni, presentava due anni fa – nel febbraio 2021 – il progetto Archeoplastica sul sito Produzioni dal Basso, con lo scopo di raccogliere fondi per creare un Museo virtuale degli antichi rifiuti spiaggiati..
Da allora Archeoplastica ha avuto una straordinaria eco mediatica, che ha travalicato i confini nazionali: le principali reti televisive ne hanno parlato, in notiziari o trasmissioni come ‘GEO’ di Rai3, o ‘E-planet’ di Italia1, e quotidiani come ‘La Stampa’, ‘Il Fatto Quotidiano’, ‘la Repubblica’ ne hanno scritto, fino all’inglese ‘The Guardian’. Il Museo virtuale si è inoltre materializzato in tante mostre, alcune in luoghi prestigiosi come il teatro Margherita di Bari in occasione della Mostra ‘Planet or Plastic?’, o il Palazzo Blu di Pisa, all’interno della mostra ‘Oceani ultima frontiera’ di National Geographic.
Tutto ciò ha contribuito ad accendere, come Enzo sperava, un faro su un’emergenza che sta mettendo a rischio la vita dei mari e degli oceani, i polmoni della Terra e i regolatori del clima, oltre che fonte di sopravvivenza indispensabile per l’uomo stesso. Nel 2050 gli oceani conterranno più plastica che pesci (in peso), se non riusciremo ad arginarne la dispersione, come ha previsto nel 2016 il report della fondazione di Ellen MacArthur The New Plastics Economy: Rethinking the future of plastics.
Secondo le stime del WWF ogni anno, nel nostro Mediterraneo, finiscono 570mila tonnellate di plastica e si prevede che entro il 2050 questo dato quadruplichi. Nel 2022 la presenza di microplastiche è stata per la prima volta provata persino in una placenta umana.
Prima della presentazione ufficiale, il Museo degli antichi rifiuti spiaggiati prendeva forma attraverso i post della pagina Facebook di Enzo Suma, attorno alla quale si andava creando una comunità virtuale che condivide le preoccupazioni sulle problematiche degli ecosistemi marini e costieri. Da queste comunità, ogni sabato mattina, si riunivano decine di persone, si ritrovavano con lui a Ostuni e dintorni, per ripulire insieme spiagge e scogliere. Questi appuntamenti daranno origine a una serie di altre giornate di pulizia della spiaggia, organizzate da diversi gruppi e associazioni, in tutta Italia, nel tentativo di arginare, per come possibile, l’inquinamento dei litorali e delle acque. Enzo Suma ha quindi ricevuto reperti per il suo Museo da tutto il territorio nazionale e oltre, ampliando quindi il significato ideale del suo progetto, fino a renderlo un patrimonio collettivo.
La forza del progetto risiede nella capacità di operare a vari livelli, allo scopo di generare attivismo e consapevolezza: un livello nazionale, di informazione scientifica sul tema della plastica, un livello emotivo ed evocativo dell’immaginario storico attraverso le icone del consumo, infine un livello inconscio che scava nella suggestione archeologica.
La musealizzazione giunge quindi a “istituzionalizzare” un altro uso, una nuova vita per i rifiuti spiaggiati, riscattandone la condizione. Appassionarci al ritrovamento di un flacone di shampoo degli anni ’60, può cambiare completamente la nostra prospettiva nei confronti del prodotto e del suo uso nel quotidiano.
Avete mai provato a raccogliere plastica in spiaggia? Ci si sorprende quante intuizioni, riflessioni, divagazioni possano scaturirne. La raccolta della plastica diventa così una forma di meditazione attiva nella quale la ricerca dei rifiuti si identifica con la ricerca di noi stessi, o almeno di quello che rimane di noi stessi, anch’esso spiaggiato e frantumato in mille pezzi, nella deriva della società contemporanea. A suo modo, si tratta di una “Ricerca del tempo perduto”: il tempo che non ci siamo dati per considerare adeguatamente quello che avevamo fra le mani, buttandolo via in gran fretta, nella dannata e frenetica civiltà del consumismo. Senonché il grande mare ci restituisce tutto, obbligandoci a riflettere e a riconciliarci con noi stessi e il nostro ecosistema.
Visita il Museo Virtuale QUI
La “madeleine” per la recherche di Enzo Suma è stata – come lui stesso ci racconta – una confezione di Ambra solare: un tuffo in una memoria personale e/o collettiva che ci emoziona, quando andiamo a rivedere le pubblicità dell’epoca. C’è indubbiamente un lato affettivo, da collezionismo vintage, che coinvolge il progetto Archeoplastica: sembra di entrare in una puntata di Carosello, quello stesso programma attraverso il quale Bramieri negli anni ’60 pubblicizzava il rivoluzionario Moplen, nome commerciale del polipropilene, la cui scoperta era appena valsa il Nobel a Giulio Natta.
Come non emozionarsi allora a rivedere una confezione di Vernel o Badedas degli anni ’70, un Nesquik o un Nelsen piatti degli anni ’80, o ancora la ciotolina della Coppa Rica, il bastoncino componibile del Ghiacciolone? C’é stato un periodo della nostra vita in cui questi oggetti, con il loro tipico design, erano talmente familiari che nemmeno ci soffermavamo più a guardarli, poi sono scomparsi dalla nostra vista. Noi stessi li abbiamo buttati via, senza pensarci più di tanto. Alcuni marchi non ci sono più, altri si sono convertiti rinnovandosi in oggetti di consumo tuttora in uso.
Rivederli non può che farci riflettere su quanto poco sia durata la loro “vita” nelle nostre mani, – minuti, come nel caso di una lattina o un bicchiere – e quanto stia invece lunga la loro vita “da rifiuti”.
Il “paradosso archeoplastico” si costituisce su uno dei principali “nonsense” del nostro tempo: l’avere affidato imballaggi usa e getta a un materiale virtualmente “eterno”. Può far sorridere che la plastica venisse presentata appunto come tale dalla pubblicità dell’epoca ma c’è del vero: parliamo di un materiale che non è biodegradabile, ovvero soggetto a un’azione di decomposizione da parte di batteri e funghi, che possano restituirlo ai cicli naturali. Una innaturale caratteristica che, se ha contribuito alla sua immediata affermazione come surrogato di tanti altri materiali, ha rappresentato una dannazione nei decenni a venire, perché le resine sintetiche di origine fossile lasciano tracce per parecchi secoli prima di scomparire. E non ce lo possiamo più permettere. Eppure, la stessa plastica veniva proposta, mezzo secolo fa, non solo come materiale durevole, ma persino ecologico, perché ci evitava di dover tagliare alberi per creare oggetti, oppure di uccidere animali, come nel caso delle pellicce sintetiche. Per il mondo dei polimeri sintetici, può suonare strana la categoria di “archeologico”, ma la velocità con la quale la nostra società si è evoluta e trasformata nell’ultimo secolo, rende tutto relativo. Se tuttavia vi volete proiettare in un film di fantascienza, e immaginare un mondo futuro nel quale la nostra civiltà sia stata sommersa come Atlantide, il che non è poi così lontano dalle proiezioni sull’innalzamento delle acque per il riscaldamento globale di qui a fine secolo, provate a chiedervi cosa mai potranno comprendere gli archeologi a riguardo di tutti gli oggetti che vediamo oggi spiaggiati. Cosa mai potranno dedurre della nostra civiltà, dedita a un consumismo compulsivo, bisognosa di produrre sempre nuovi oggetti, sempre più futili?
Come ci racconta lo stesso Enzo Suma:
La parte difficile è lo studio del “reperto. Bisogna indagare effettuando delle ricerche nel web, analizzando bene l’oggetto, come farebbe un archeologo, alla ricerca di una preziosa informazione, una data, un dettaglio che consenta di arrivare poi alla datazione. Non è un lavoro sempre facile. Per un reperto ho impiegato un anno e mezzo solo per ricostruirne in parte la storia, che ho intitolato “Il mistero del gobbo anni ’60!”
È stato detto che questa sia l’ultima generazione che possa risolvere il problema del riscaldamento globale e del degrado ambientale. Ebbene, se questo è vero, è anche vero che siamo le ultime generazioni che possano decodificare i miliardi di messaggi e forme che gli involucri di plastica hanno caoticamente prodotto.
Se dunque trovate dei reperti, cui non sapete dare una identità, non disperate: bussate alle porte del Museo degli antichi rifiuti spiaggiati (www.archeoplastica.it) e troverete risposta alle vostre domande.
Vi consiglio di visitare anche le pagine Facebook, Instagram o Tiktok, che riportano molti aggiornamenti sugli ultimi eccezionali ritrovamenti
Franco Sacchetti è un fumettista, scrittore e attivista ambientale. Nel 2009 pubblica il romanzo: “La marcia dei frigoriferi verso il Polo Nord”, nel 2016 “Fratini d’Italia – cronache di resistenza dalle nostre spiagge”, nel 2018 firma l’albo illustrato “ALL YOU SEED IS LOVE – Tutto ciò che semini è amore”; nel 2019 il romanzo grafico “Dove i rondoni vanno a dormire”. E’ autore del blog “A Chi Jova Beach Tour” contro i grandi eventi in spiaggia. Sito: www.francosacchetti.it
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