di Paolo Risi
Raccontare la nostra era, le paure collegate alla catastrofe, imminente o in atto: sorprende constatare come siano numerose le rappresentazioni letterarie e cinematografiche che pescano nei vissuti, nei nodi irrisolti di una civiltà, di un dettato sociale.
Marco Malvestio, con “Raccontare la fine del mondo – Fantascienza e Antropocene”, prova a fare ordine, traendo da una ponderosa mole di visioni e letture le radici comuni, le deviazioni insite nei materiali e nei mezzi espressivi. Cinque i capitoli che illustrano temi e articolazioni in divenire: il nucleare, la pandemia, il cambiamento climatico, il regno vegetale e il regno animale. Si tratta di inneschi dell’immaginario che inglobano realtà e artificio, intenzionalità e materiale rimosso, e che organizzati in una sequenza spazio-temporale forniscono una versione plausibile dell’Antropocene, della collisione tra progresso e imperscrutabilità degli ecosistemi.
È appropriato parlare di profezia, di come – suggerisce Malvestio – la fantascienza, nella sua declinazione distopica e post-apocalittica, sia in grado di strutturare un futuro possibile, e attraverso questo futuro ripensare il presente.
Il linguaggio che comprende i generi horror, fantascienza, weird e le loro ibridazioni appare come il più appropriato a descrivere la dinamica della Grande Accelerazione, il periodo storico che si estende dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi; e se si ritiene troppo espansivo il termine appropriato è comunque lecito identificare nella catastrofe, nella sua messa in scena, la tensione fra accanimento della specie umana e agentività negata del non-umano.
Nelle pagine di “Raccontare la fine del mondo” ricorre costantemente l’alternanza tra potenziale generativo e distruttivo dei processi tecnologici; è lo spartiacque mobile, frastagliato nelle sue interpretazioni, che marchia a fuoco l’Antropocene e le sue conquiste. Da Hiroshima e Nagasaki in poi le narrazioni della minaccia atomica hanno fatto propri i riflessi della dialettica generativo-distruttivo; contenuti messi in prosa da scrittori come James Graham Ballard e Ray Bradbury, architetture intrise di inquietudine, di polveri sostanzialmente invisibili che preludono a una morte silenziosa, a una possibilità di mutazione. Nelle prassi drammaturgiche si utilizzano le ambiguità del postumano (il patto faustiano della scienza atomica) in funzione di propellente e presupposto filosofico.
Realtà e illusione si integrano nel concetto di contagio. Oltre all’attualità in cui siamo immersi la pregnanza del termine si rileva nei gerghi e nel parlato comune, segnale questo di un’esigenza di controllo, di una disturbante presenza insinuatasi nella quotidianità. L’apocalittico e il post-apocalittico legati alle pandemie vantano illustri cantori, lungo una direttrice che raccorda civiltà e sensibilità letterarie. Nella progressione Marco Malvestio inserisce i sommi testimoni delle pestilenze (da Tucidide a Procopio a Giovanni Boccaccio, da Daniel Defoe ad Alessandro Manzoni) e cita come uno dei primi e più riusciti romanzi di ispirazione pandemica “L’ultimo uomo” di Mary Wollstonecraft Shelley, pubblicato nel 1826. Ma l’attualità incalza, e ci spinge a individuare i fattori che hanno reso la nostra epoca un contesto privilegiato per la diffusione dei virus: hanno fornito il loro basilare contributo le reti di trasmissione zoonotiche, flussi che solcano indisturbati i territori plasmati dalla Grande Accelerazione.
Obiettività scientifica e suggestioni che derivano da una presunta egemonia culturale: il male che esce dalle tenebre può risultare inconcepibile, perturbante, e quindi va ideato un costrutto a discolpa dell’Occidente, che giustifichi stili di vita programmati e poi acquisiti. Da qui, in principio, l’evidenza della precarietà della condizione umana, e di rimando la configurazione di un ceppo alieno, orientale, suscitatore del flagello e manifestazione (come negli zombie movie) dell’ansia coloniale di contaminazione.
L’evento catastrofico infarcito di elaborazioni digitali e rimaneggiato attraverso teorie elaborate aprioristicamente. Malvestio appronta l’ennesima selezione, consistente ed esplicativa, la quale spazia dal reportage al cinema e alla narrativa; ci parla di retorica apocalittica, forse funzionale a una maggiore comprensione dell’Antropocene, del suo funzionamento, ma anche pericolosamente tangente alla mistificazione. Quindi la crisi finisce per diventare un semplice espediente narrativo, finalizzato a tratteggiare scenari di fine del mondo, senza che le cause di questa fine vengano effettivamente indagate; e le storie risultano spesso più o meno stereotipate, gli intrighi politici o le avventure survivaliste sono la scusa per immaginare il mondo come sarà, senza pero che l’immaginazione del futuro sia qualcosa più di un pretesto per lo sviluppo di trame rumorose.
Al contrario, dall’arte in senso lato, è lecito attendersi ricostruzioni analitiche e allo stesso tempo originali, capaci di sondare la complessità: il particolare, le classiche gocce che corrodono gli habitat naturali, le reti sociali, e opportunamente nel volume edito da nottetempo viene preso in considerazione Oryx and Crake (2003; in italiano L’ultimo degli uomini) di Margaret Atwood, primo romanzo della trilogia MaddAddam, che comprende anche L’anno del diluvio (2009) e L’altro inizio (2013).
Nella fantascienza il mistero dei mondi non umani si articola e apre a sostanziali riflessioni. Si insinua un latente sentimento di diffidenza verso il regno vegetale, reso oggettivo in opere come Il giorno dei trifidi di John Wyndham (1951), pietra miliare della narrativa apocalittica; organismi vivi, attivi, che tramano per sovvertire un ordine costituito, quello che sfrutta impunemente l’ottanta per cento della biomassa terreste, che pianifica deforestazioni e ibridazioni contronatura. E naturalmente il mostro, l’animale che percorre, roboante o silente, l’immaginario contemporaneo; basti pensare allo squalo dell’omonimo film di Steven Spielberg, terrificante grazie agli artigiani degli effetti speciali, ma soprattutto accento stridulo di un rimosso da ammorbidire, da ricondurre a un’impetuosa fisicità.
Marco Malvestio evidenzia più volte il tema dell’agentivita del non umano: l’industria dell’intrattenimento e della comunicazione giocano su un terreno fecondo, composto da elementi remoti, archetipici, rimescolando e riattivando, il più delle volte grossolanamente, la paura dell’ignoto, la possibilità di una ribellione da parte dei terrestri non umani. Oltre l’angoscia e il senso di colpa si delinea una prospettiva nuova – e forse salvifica – per il pianeta: in ciò si formula l’auspicio che la narrativa dell’Antropocene sia in grado non solo di parlare “del” mondo, ma anche di parlare “al” mondo e di informarlo col suo discorso; e soprattutto che sia capace di nominare cose che le altre discipline (quelle scientifiche come quelle filosofiche) non necessariamente riescono a rendere manifeste con altrettanta chiarezza.