Riflessioni e testimonianze dirette su ecologia e emergenza ambientale
a cura di Vincenzo Corraro
Riflessioni: ancor oggi quando si sollevano questioni di aggressione a un territorio o di sfruttamento delle risorse naturali, ogni forma organizzata di denuncia viene liquidata, con intenti ironicamente denigratori, come sindrome Nimby. Not in My Back Yard (Non nel mio giardino) si dice, identificando l’opposizione di una comunità locale a ospitare interventi di un non ben definito interesse generale come una minoranza inquieta e allarmista solo perché ha l’ardire di rivendicare per il territorio forme di partecipazione nel processo decisionale e si batte in difesa della salute, dell’ambiente e dei beni comuni.
In una drammatica e crescente conflittualità tra modelli di sviluppo, l’idea che l’ambientalismo venga inteso ancora come radicalismo fa semplicemente sorridere. L’approccio verso il tema delle risorse richiede ormai altre chiavi di lettura e le tantissime storie di illegalità ambientale riflettono – parliamo dell’Italia – un modus operandi che ovunque ha le stesse manifestazioni sistemiche. Da nord a sud, non ci sono più peculiarità geografiche e non basta più colorare la casella della regione dove storicamente operano i ceppi criminogeni per avere il quadro degli illeciti ambientali; si sa: gli interessi e i profitti si sono spostati ovunque, le economie malate hanno uno spartito che si legge a prima vista, il vantaggio patrimoniale e l’introito del sommerso vengono prima di ogni norma e ancor prima della indefettibile distruzione delle risorse.
Sta cambiando il mondo e una visione sempre più globale delle emergenze ambientali, dettata dalle sfide attualissime sui cambiamenti climatici e sull’inquinamento selvaggio, imporrebbe un codice etico, normativo e comportamentale rigidissimo e un fronte di denuncia sempre più largo: per buon senso occorrerebbe innanzitutto uscire dal tritacarne delle ingerenze politiche, colpevole di avere derubricato il cogente dibattito sull’ambiente a un gioco di fazioni, a un noioso incaglio di luoghi comuni.
Molti conflitti ambientali hanno dimostrato sul campo che quando malcostume e logiche di profitto vincono sul resto a farne le spese è anzitutto la tenuta sociale di un territorio, ancor prima che la sua salubrità o l’insieme delle sue più autentiche vocazioni. È proprio sulle tensioni irrisolte che l’interesse di pochi spadroneggia: vincoli e tutele in certe zone protette rimangono lettera morta, il piano dell’occupazione e delle infrastrutture che in genere accompagna il mantra delle strategie aziendali (e l’acritica imposizione delle grandi opere) è una sorta di paravento che si frantuma nel ginepraio degli appalti e nell’impatto occupazionale di brevissimo periodo. Per non parlare del censurabile meccanismo degli accordi di compensazione che, in nome della sostenibilità, diventa un circolo vizioso di elargizioni economiche che non fanno altro che infiacchire le istituzioni locali, creare aspettative effimere, rimpolpare il solito giro dei più furbi.
Seppure i dati che emergono da Ecomafia 2019. Le storie e i numeri della criminalità ambientale in Italia raccolti da Legambiente nel suo annuale Rapporto dedicato alle illegalità ambientali registrano, come ci è dato di capire, un calo del bilancio complessivo dei reati e delle infrazioni contro l’ambiente (ma ciò è dovuto all’efficacia del sistema di repressione dei reati, grazie alla recente applicazione della Legge 68/2015), risulta evidente che la spietata aggressione alle risorse ambientali del Paese da parte delle organizzazioni criminali ha ormai raggiunto picchi inenarrabili, con logiche di incursione e di pervasività (e spietatezza) mafiosa della gestione dei processi produttivi che ha scalzato – in termini di fatturato illegale – altri traffici e altri business. L’intero spettro dei fenomeni di criminalità ambientale non muta: dal ciclo illegale dei rifiuti (traffico e smaltimento) alle contraffazioni in agricoltura, dalla speculazione edilizia agli incendi boschivi, dagli illeciti contro gli animali ai danni al patrimonio artistico, si arriva a conteggiare un giro d’affari che nel 2018 equivale a qualcosa come 16,6 miliardi di euro, 2,5 in più rispetto all’anno precedente.
La devastazione dell’ambiente riduce i diritti delle persone, ne minaccia le fondamenta. Da custodi a scialacquatori del creato il passo è stato breve. Uno degli ammonimenti più radicali di Papa Francesco ruota attorno al concetto che “l’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme” 1. A essere colpiti sono i soggetti più deboli (uomini e animali, non fa differenza), ossatura dell’ecosistema. Esiste un minimo di valori comuni non negoziabili, che finiscono per coincidere con l’essenza stessa della vita e con il diritto alla salute (e alla felicità) di ciascun individuo.
Purtroppo il peggioramento della qualità della vita si macchia di una costante in questo ossessivo sfregio delle risorse: una insensibilità tremenda e una sorta di consuetudine verso ciò che da anni viene sfacciatamente perpetrato alla luce del sole. Riferendosi alle tragedie dei migranti morti in mare, Claudio Magris ha parlato di assuefazione. “L’assuefazione è la regina del mondo”2, scrive, constatando che siamo diventati indifferenti e privi di emozioni dinanzi a fatti che diventano cronaca consueta (). Così temo sia pure per gli impliciti risvolti riguardanti il tema delle risorse. La totale impassibilità – silenti le istituzioni, sfiduciate le popolazioni – dinanzi alla ripetizione dei reati ambientali e alla situazione sanitaria drammatica causata da ogni forma di inquinamento è certamente inquietante.
L’auspicata conversione ecologica dovrebbe partire quantomeno dalle buone pratiche, soprattutto da parte dei colossi industriali che fanno man bassa specie in quei territori dove condizionamento sociale, regime emergenziale, carenze infrastrutturali, ricatto occupazionale e obiettivi di profitto mantengono una inviolabile autonomia. A fare notizia (e letteratura) è stato nel passato lo smaltimento illegale di rifiuti industriali: il più pericoloso campo d’attività delle ecomafie e uno tra i traffici illegali più redditizio. Le inchieste sui siti inquinati e l’emersione di traffici illeciti verso i paesi in via di sviluppo hanno scoperchiato interessi internazionali di proporzioni spaventose. Anche nelle dimensioni del reato. Si ricorderanno a tal proposito le cronache sull’inabissamento delle navi a perdere (o ‘dei veleni’) nei nostri mari che, secondo le rivelazioni dei pentiti di ‘ndrangheta, erano adibite al trasporto di rifiuti tossici e radioattivi. Ma è uno scenario, quello dello smaltimento illegale, che ad oggi non riguarda più solo la Terra dei fuochi, ma che si estende oramai in tutta Italia (Brescia, nelle aree industriali di Cagliari, Sassari – fonte Istituto Superiore di Sanità).
Il report Ecomafia 2019 mette in evidenza che persino i presunti processi industriali più virtuosi non sono esenti da reati gravissimi: in Basilicata i dati giudiziari riguardano lo sversamento di greggio dai serbatoi del Centro Oli di Viggiano, le cui perdite hanno provocato l’inquinamento di falde acquifere e terreni. A farsi prendere dalla sindrome Nimby o da inutili allarmismi si fa peccato perché stiamo parlando di processi funzionali all’economia nazionale e la discussione, da tempo, si è spostata su altri livelli (aumento o contenimento delle trivellazioni, ricerca di nuovi pozzi), eppure qualcosa non quadra: i capi d’accusa sono gravi: si va dal disastro ambientale al falso ideologico, all’abuso d’ufficio; gli impatti ambientali della più grande riserva petrolifera del nostro paese – dove si estrae qualcosa come il 70,6 % del petrolio e il 14 % del gas italiani – sono sotto gli occhi di tutti, mentre è apertissimo il dibattito sul mancato sviluppo di un’area, nonostante l’invasiva attività industriale che va avanti da circa vent’anni. Un po’ come l’Ilva di Taranto, su cui grava oltremodo il reato per il mancato smaltimento di tonnellate di rifiuti pericolosi in alcuni siti afferenti all’area dello stabilimento. Anche in questo caso il leit motiv non muta accento: risparmi sui costi di bonifica, vantaggi economici nell’aggirare procedure a norma di legge. Sistematica illegalità e impianti ‘alleggeriti’ o quasi inesistenti per trarne profitto sono i tratti principali dell’indagine sulla “Mala depurazione” in Calabria.
Una chiacchierata con Ferdinando Laghi, per chiudere il cerchio, a questo punto è d’obbligo. Laghi è medico ed è il vice presidente nazionale di ISDE Italia – Medici per l’Ambiente, e da anni segue le vicende legate agli inceneritori, al ciclo dei rifiuti e al controverso affare delle biomasse in Calabria. A lui va il merito di tante battaglie in difesa dell’ambiente; assieme a comitati e amministratori locali, ha contrastato in particolare la riapertura della centrale a biomasse Enel (passata di proprietà al Fondo F2i nel marzo scorso) della Valle del Mercure, posta al confine tra la Basilicata e la Calabria, nel cuore del territorio protetto del Parco Nazionale del Pollino.
Il vecchio concetto di Glocal – ragioniamo assieme – mai come in questi casi si offre redivivo e assai efficace. Squilibri ambientali e processi speculativi non conoscono confini e nelle (apparenti) piccole cause si rispecchiano magagne consolidate. Gli interventi strutturali, che sconquassano gli equilibri naturali di un territorio, armeggiano su bisogni e culture locali, fino ad avere uno stravolgimento del destino di un’area, per mano estranea. Assistiamo a uno scambio ecologico iniquo o addirittura fasullo: dietro la “presunta rinnovabilità” di alcune fonti energetiche come le biomasse forestali si nasconde un coacervo pericoloso di insipienza, interessi predatori, ambientalismo caricaturale, accattonaggio industriale.
Spesso vengono rivitalizzati impianti dismessi che, una volta riconvertiti, attraggono più capitali: sostentati da lauti sussidi pubblici (a fronte del loro bassissimo rendimento elettrico), malvoluti dalle popolazioni locali, si fondono su un modello di combustione che è in contraddizione con il principio delle rinnovabili. Precisa il dr. Laghi: “È un processo, quello della combustione, che si basa su una modalità lineare di produzione energetica, che è caratterizzata da emissioni pericolose e da residui (le ceneri) difficili da smaltire.” Oltre al fatto che dietro l’apparente “innocuità che normalmente viene associata alla combustione del legno, sono numerosissime le sostanze tossiche e cancerogene che vengono liberate nell’aria.” A ciò si aggiunga che la criminalità organizzata si è buttata a capofitto nell’enorme business derivante dalla vendita del legname alle centrali a biomasse, alimentando illeciti a danno del patrimonio boschivo (cui si richiama l’esteso ventaglio della cosiddetta “mafia dei boschi”). Non soltanto tagli abusivi, per altro, ma addirittura centinaia di incendi dolosi che hanno lo scopo di contribuire alla illegale produzione di biomassa da portare alle centrali da essa alimentate.
Legambiente sottolinea come il cambio di paradigma penale imposto dalla Legge 68 potrebbe essere di grande aiuto per chi opera correttamente e rappresenta l’economia sana del Paese. Ce lo auguriamo. Anche se l’azione repressiva, bisogna rimarcarlo, arriva dopo che le forme di intenso sfruttamento e degrado dell’ambiente hanno compromesso le economie locali, creando un senso di frustrazione nei territori. Di certo la Green economy, quando non è di facciata, ha bisogno di maggiori tutele e deve essere messa nelle condizioni di raggiungere il fragilissimo equilibrio tra salute, condizioni economiche e occupazionali di un certo livello (con ricadute serie per i territori), mirando alla circolarità del sistema produttivo. Integrando le iniziative endogene, che creano parimenti occupazione. Rispetto a questo quadro trasparente e sostenibile, verrebbe meno la democratica ostilità di qualsiasi comitato ambientalista. Ma se non si inverte al più presto questa tendenza, “fatti simili” – mi piace dirlo con le parole pungenti di Vitaliano Brancati -, ci indurranno “a meditare sulla nostra misera condizione di corpi”, siccome verrà “un tempo in cui le cose, ritenute comunemente deboli, saranno le più forti; quando l’ultimatum delle margherite, portato da un grillo con un inchino, farà tremare chi lo riceve.”3
1 Francesco, Laudato si’. Lettera enciclica sulla casa comune, Edizioni San Paolo, Roma 2015, p. 60.
2 Claudio Magris, L’assuefazione alla tragedia, in Livelli di guardia, I classici del Corriere della Sera, Milano 2019, pp. 181-182
3 Vitaliano Brancati, I piaceri della crudeltà, in I piaceri, Bompiani (I Grandi Tascabili, I ed.), Milano 1993, pp. 57 – 60.
Vincenzo Corraro
Insegnante, vive in Basilicata, sui monti del Pollino, dov’è nato nel 1974. Ha pubblicato il romanzo Sahara Consilina (Palomar – cromosoma y 2004) e la raccolta di racconti Dimmi che c’entra la felicità (con Margi De Filpo, Ensemble 2016). Alcune sue storie sono apparse su CrapulaClub, Nazione Indiana, Zest – Letteratura Sostenibile. Ha partecipato all’antologia Anatomè – dissezioni narrative, a cura di Antonio Russo de Vivo e Andrea Zandomeneghi, Ensemble 2018.