Nelle edizioni del settembre e del dicembre 1926 sulla rivista “Il Baretti“, appaiono, per concessione della principessa Marie von Thurn und Taxis, che le traduce, alcune liriche inedite e altre già note, del poeta Rainer Maria Rilke.
Nel 1910 Rilke raggiunge il castello di Duino della famiglia Thurn und Taxis, ospite della principessa Marie. Il poeta pare trovare qui, per l’accoglienza del luogo e le circostanti bellezze naturali, l’ispirazione per quelle che saranno poi le Elegie duinesi, dedicate alla stessa Marie per riconoscenza. Questa non manca di sostenerlo presso i luoghi che possano farlo conoscere e apprezzare, traduce alcune sue poesie, ne affida la pubblicazione a Il Baretti, rivista letteraria fondata da Pietro Gobetti, che venne pubblicata dal 1923 al 1928 e che vide la collaborazione di firme illustri come Leone Ginzburg, Luigi Einaudi, Natalino Sapegno, Giuseppe Prezzolini.
Non è chiaro la genesi della collaborazione tra la rivista gobettiana e la principessa Marie von Thurm und Taxis, tuttavia dalle pagine de Il Baretti, dalla premessa fornita alla pubblicazione della traduzione del poema rilkiano “Orfeo, Euridice, Hermes” (Da “Die neuen Gedichte”) apprendiamo che queste traduzioni in qualche modo giunsero alla redazione:
[…]
Una gentildonna straniera, la principessa Maria Thurn und Taxis, ha tradotto in italiano alcune liriche, edite e inedite, del poeta tedesco Rainer Maria Rilke. L’amore della nostra lingua, ch’ella parlò fin dalla fanciullezza, l’intelligenza perfetta del testo, l’amichevole dimestichezza coll’autore danno un singolare pregio a queste versioni, che non furono mai finora pubblicate. A Duino, nel castello ch’ella ereditò dalla madre […] il poeta Rilke compose quella ch’egli ritiene l’opera sua maggiore: “Die Duineser Elegien”; e queste versioni via via che furono scritte egli le ha conosciute e di alcune ha tessuto il più alto elogio, dicendo che non sono una traduzione, ma la sua stessa poesia com’egli l’avrebbe pensata in italiano. Siamo grati alla gentile scrittrice che ci permette d’avvicinare un grande e solitario poeta. (ANNO III. n. 3 anno 1926)
Rilke e la principessa Marie erano vivacemente legati da uno scambio culturale intenso, come testimoniano le numerose lettere. La stessa ne scriverà in un libro Ricordo di Rainer Maria Rilke (Ed. Fenice, Trieste, 2005),
Vi proponiamo qui la trascrizione di alcune delle liriche pubblicate.
Orfeo, Euridice, Hermes Da “Die neuen Gedichte”
Questa era dell’alme la strana miniera;
quali mute argentee vene rigavano
le tenebre sue. Tra le radici balzava
il sangue che ascende ai mortali
e che porfido greve nell’ombra parea.
Ivi null’altro rosseggia.
Rocce v’eran pure
e parvenze di selve. Ponti sul vacuo,
e quel grande lago grigio e cieco,
sospeso sul letto suo lontano
qual sovra pianura ciel di pioggia.
E tra miti prati, colmi di quiete, scorgeasi
quell’una strada, pallida striscia
nel lungo suo squallor distesa.
Per quella strada venivano essi.
Prima l’uomo, snello, in ceruleo manto,
che muto ed impaziente davanti a sé guardava
col passo divorando la via, insaziabile,
senza posar. Le mani gli pendevano,
pesanti e chiuse dalle pieghe cadenti,
e più non sapevano della lieve cetra
radicata alla destra sua – tale
ghirlanda di rose in ramo d’ulivo.
E divisi sembravano i sensi suoi, che
mentre lo sguardo, qual veltro, correvagli innanzi,
tornava, venia, e sempre di nuovo aspettando,
sostava lontano al prossimo girar della via,
tardava l’udito come profumo sparto.
Ben gli parea talvolta che giungesse
sino al camminar di quegli altri due
che seguirlo dovean per la salita intera.
E non era che il rombo dell’ascender suo
che l’incalzava, e il vento del suo mantello.
Ma egli si diceva che pur venivano,
ato ‘l dicea, ascoltando il suon disperdersi.
Si, venian certo; solo eran due
che andavano con passo, ahi, tanto lieve… potesse
volgersi solo una volta (non fosse
un solo sguardo distruzion per l’opra
or quasi compiuta) di certo vederli dovrebbe
que’ due, cheti e lenti, che tacendo gli vengon dietro.
Il nume del cammino e del lontan messaggio,
L’elmo de’ suoi voli sugli occhi chiari,
la verga sottile in fronte a sé portando,
e con l’ali battendo da’ piedi snelli,
ed alla sua destra affidata: Lei
la tanto amata, per cui da una cetra
più pianto venne che mai da funebri lai,
per cui un mondo di pianto sorse, nel quale
era tutto una volta ancora: pianure e selve
e strade e paesi, campi e fiori e fere,
e intorno a questo mondo di pianto
come intorno all’altra terra un sol girava,
ed un silenzioso (Sic!) stellato cielo,
un ciel di pianto e di sfigurate stelle
per questa tanto amata!
Andava ella di quel dio a mano
il passo frenato da lunghi funerei lacci
incerta, mite, non impaziente più.
Era in sé raccolta come donna incinta
e non pensava all’uomo che andava innanzi,
non al cammino che alla vita saliva.
Era tutto in sé, e la morte
la colmava come una bevanda.
Siccome un frutto di dolcezze e d’ombra
ella era colma del suo gran morire
recente sì, che null’altro afferrar potea.
Nuova verginità la ricopriva,
era intangibile in sè racchiusa
come giovin fiore verso sera.
E le mani sue già disusate, sì
d’ogni connubio, che fin il tocco, lieve
infinitamente, del Dio leggero
che la guidava, penoso risentia
qual troppo ardire.
Più non era quella sposa bionda
neri carmi del poeta spesso lodata
non più del largo letto olezzo e gioia
e il bene di quell’uomo non era più.
Era già sciolta come lunga chioma,
già distribuita qual centuplicato cibo,
qual caduta pioggia era già diffusa.
Era germe. E quando, d’improvviso,
ratto il dio la fermò, e con accento mesto
il detto profferì: “Egli si volse…”
nulla comprese e disse piano: “Chi?”
Ma lungi, oscuro sulla porta chiara
uno sen stava – e più non si conoscea
il suo sembiante. stava, e vedeva
sulla striscia d’un sentier nel prato
il nume del messaggio, lo sguardo pien di doglia,
volgersi tacendo per seguire un’ombra
che già tornava indietro su quella strada istessa,
il passo frenato da lunghi funerei lacci,
incerta, mite, non impaziente più.
Il ritorno di Giuditta
O voi che dormite!
ancor son nere l’umide macchie sui piedi miei,
incerte – forse rugiada…
Ah! Giuditta, Giuditta io sono!
E da lui vengo, dalla sua tenda,
dal letto suo,
ed il suo capo mi si dissangua in mano…
O sangue tre volte ebbro!
ebbro di vino, di profumi ebbro,
ebbro di me!
– ed ora gelido quale rugiada.
O capo, basso tenuto sull’erba mattutina,
ma io, su, in vetta del mio cammino,
io, sì alto inalzata!
O fronte, di repente disempita
o sogni col sangue nella terra scorrenti…
ma, nel mio cuore esultante
tutta la forza dell’atto che fu!
Qual amante sono io!
Terrori in me strinsero tutte le voluttà
Su di me porto tutti gli amplessi.
Cuor mio, o cuor mio glorioso,
batti contro il vento,
e va, va!
E più rapida in me la voce…
la voce mia…
Uccel cantore che chiama
la dolente città.
(Inedita)
Lassù, dietro gli alberi innocenti,
il fato antico lentamente foggia
la muta sua faccia.
Solchi profondi, vi si stendono;
e lo strido d’un angelo che qui si lagna,
ivi, quale impronta dolente, si stacca
dalla dura profetica bocca.
Ahimè! e coloro che in breve amanti saranno,
si sorridono ancora e non sanno l’addio:
al di sopra di essi, girando, sen va
il loro destino, in segno di stelle
nell’estasi notturna.
Per essere vissuto fino a loro ancora non scende,
ancora dimora,
aereo, sospeso nel mobile cielo
fantasma leggero.
Da “Die neuen Gedichte”
Cavalca il cavalier in negro acciaio
là fuori, ove il mondo scroscia e freme.
E v’è tutto là fuori : i dì e le valli,
l’amico e il nemico, e la festa nelle sale,
e il maggio e la donzella, e la selva e il santuario,
ed io stesso, le mille volte,
eretto per ogni calle.
Ma del cavaliere entro la corazza
e dietro il suo pugnar più aspro
si rannicchia la morte e sempre sta pensando
quando mai, quando mai balzerò la lama
la liberatrice lama straniera,
che mi trarrà fuori dalla mia tana
ove da tanti giorni curva mi tengo
perch’ io possa al fin stendermi
ed alfin suonare
o cantare…