IL RITRATTO
Racconto di Nadia Gambis
Guardalo, guardalo bene, imprimilo nella tua memoria, perché fra poco loro verranno, lo chiuderanno e tu non lo vedrai più. Mai più.
Queste parole fanno eco nella mia mente come una litania senza fine. Non provo niente, non sento niente. Sono un guscio vuoto dentro una fossa dimenticata.
Fisso mio padre, così bello, con i capelli scuri appena brizzolati, i lineamenti regolari, il volto un po’ pallido, il corpo snello disteso e sereno, la bocca esangue quasi sorridente. Gli occhi neri rigidamente addormentati. Strette intorno a lui pareti di ciliegio bruno-rosate, ricoperte da un drappo fiammeggiante. Rosso come l’ardore che bruciava i suoi vent’anni in mezzo ai compagni di lotta. Rosso come lo stendardo sbandierato per strada tra arresti e manganelli calati nel mare delle tute blu che pagavano con la fame il riscatto di Livorno in macerie. Nella fuga delle gambe veloci a sera le strade si coloravano di porpora. Il tramonto violaceo eclissava il cielo. In lontananza, il ripetersi ostinato di sirene e campane.
Guardalo, guardalo bene, disegnalo nella tua memoria, perché fra poco loro verranno, lo chiuderanno e tu non lo vedrai più. Mai più.
Padre mio, ancora bello, con i capelli scuri appena brizzolati, i lineamenti regolari e il volto sereno e disteso. La sera – nella memoria risento un tempo di fiaba – mi avvinghiavo alle tue grandi mani, squadrate dalla fatica dell’acciaieria. Fiaccate dai fumi e dal fuoco, mi facevano salire a rubare un ruvido bacio, poi, annidata lassù, in alto, mi insegnavano a tirare di pugno contro i compagni di gioco che mi scagliavano addosso sassi di paura. Avevo i capelli rossi e certo ero una strega, ripetevano, mentre risuonava senza fine l’odioso ritornello rósso malpélo schízza veléno. Rosso è bello, dicevi con uno stanco sorriso, e io ti credevo. Rosso è bello, dicevi malinconico e deluso. Sfioro quelle mani larghe e impotenti, mentre spio la tua bocca serrata cercando gli occhi neri che non trovo. In lontananza, il ripetersi ostinato di sorde campane.
Di colpo mi metto a rovistare nel ripostiglio con furia febbrile: dove li ho messi, accidenti, mi servono ora, subito.
Che fai? chiede la voce di mia madre riemersa dal pozzo di un’era lontana.
Cerco i pennelli e i colori, voglio fargli un ritratto finché…
Gli occhi arrossati di mia madre si dilatano fissandomi spaesati in un silenzio inebetito. Nello sgomento di quello sguardo perduto fluttua l’orrore di parole che le suonano oscene.
Guardalo, guardalo bene, dipingilo nella tua memoria, perché fra poco loro verranno e lo chiuderanno e lo porteranno via e tu non lo vedrai più. Mai più. Perché è morto.
Il dolore esplode all’improvviso con uno schianto muto che mi rovescia a terra in un buio di pece.