Capita talvolta, al cospetto di un testo che può anche presentarsi, in apparenza, pulito – e per pulito intendo ineccepibile da un punto di vista grammaticale –, di dover applicare la cesoia. È la legge crudele del “taglio”, quella che può addolorare o irritare l’autore e che ci induce a pensare ci sia del sano sadismo, in un editor.
Sano sadismo, una formula che puzza di ossimoro. Eppure rende bene l’idea.
L’editor non deve essere facile a concessioni, quasi mai dovrebbe piegarsi ai motivi dell’autore che spesso sente minacciato il fuoco sacro dell’arte di cui è stato dotato da una qualche entità divina. Può farlo, di rado. Ci sono momenti in cui troppa rigidità nuoce e si rischia di depotenziare l’autore fino all’annullamento. Ecco: ci vuole una certa abilità nella gestione non di chi scrive, ma dei limiti. Guai se si cannibalizzasse l’autore, guai se la propria visione della scrittura investisse l’autore del testo fino a tramortirlo. La propria visione, che si presume tecnica, deve scontrarsi con quella dell’autore per seminare dubbi su dubbi: il testo di partenza è solo il testo di partenza, il testo finale è, al contrario, la rielaborazione più o meno eversiva del testo di partenza. C’è un cambiamento, c’è una maturazione, si spera.
La tragedia si consuma quando il taglio colpisce frasi belle o pensieri stupendi. Può capitare anche questo, e a sanguinare qui sono editor e autore. Si tratta di “sacrifici di stile”, come mi piace definirli. Il testo ha una sua ritmica, brani e parole coincidono come i mattoncini del Tetris, e allora, in virtù di questo, quando frasi e pensieri, pur validi, strabordano e creano disarmonia, l’unica soluzione è tagliare. Inutile provare a limare e modificare, ci si affannerebbe tanto per ottenere, infine, solo un incastro forzato. Il testo è come un puzzle, con tutte le conseguenze del caso.