David Mamet, drammaturgo e sceneggiatore, nel saggio sul teatro Note a margine di una tovaglia (1988) scrive:
“[…] in questi tempi di paura e di ansia ci concentriamo su noi stessi, sui nostri sentimenti, sulle nostre emozioni, sul nostro benessere immediato. Tutto ciò favorisce una recitazione di pessima qualità, poiché più concentriamo l’attenzione su noi stessi, meno interessanti diventiamo; pensate a quanti ipocondriaci affascinanti conoscete.”
(a cura di Elisabetta Valdré, Theoria, 1992, p. 145)
Sostituite «scrittura» a «recitazione» e vi ritrovate dinanzi al vostro grande problema: l’egocentrismo.
Chi scrive, quando non attinge in via indiretta al proprio microcosmo, parla esplicitamente di sé. C’è una tendenza a narrarsi, a confessarsi, che tendenzialmente produce risultati tutt’altro che interessanti. Come se la propria vita possa avere un qualche valore letterario, un qualche valore paradigmatico, un qualche valore, punto!, per il prossimo. Urge dunque avvisarvi che, qualora stiate pensando non solo di sfogarvi sul testo ma anche di far uscire l’oggetto del vostro sfogo dalle quattro mura che vi contengono, fuori non c’è nessuno (o quasi) interessato a leggervi; sono già pochi quelli disposti ad ascoltarvi; addirittura viviamo in tempi in cui si paga per essere ascoltati.
Prima di scrivere di voi stessi, vi chiedo di porvi le seguenti domande:
“ho condotto una vita eccezionale, meravigliosa, straordinaria, tale da essere interessante per il lettore?”
“chi se ne frega di me?”
“sono Marcel Proust?”
La risposta, in genere, è negativa.
Vi tocca scrivere di altro, vi tocca inventare, vi tocca soprattutto imparare la tecnica, il mestiere di scrivere, perché la scrittura non è improvvisazione, la scrittura è lavoro e pazienza, è studio, è buon gusto, ingegno, selezione.
La scrittura è invenzione + stile.
Ciò che Mamet scrive degli attori è un monito anche per voi aspiranti scrittori:
“Ci si mette in ridicolo soprattutto quando, come spesso succede, il tutto è accompagnato da lusinghe che mirano ad affermare che non esiste nessuna tecnica, che non c’è bisogno di studiare, che il solo modo per imparare è fare e che, dopotutto, la ricerca di buone abitudini di lavoro, cioè la tecnica, e di buone abitudini di pensiero, cioè la filosofia, è una pratica sterile.
Il consiglio «fate quello che sapete fare bene» conduce a un’inversione ben nota. Crea logicamente nell’interprete l’interesse alla «nulla-sapienza» e lui o lei arrivano a negare l’esistenza stessa sia della tecnica che dell’estetica. Lui o lei diventano fascisti, egocentrici totali, veri campioni di «faccio quello che mi sento», «dico quello che mi sento», «scrivo quello che mi sento».
Il risultato è, più o meno, dannosa spazzatura.”
(ivi, pp. 156-57)