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Il principio della terra | Elena Maffioletti
Infinito edizioni

 


Fermò il filo sul rovescio del tessuto, lo tagliò con un paio di minuscole forbici. Infilò l’ago sul lato sinistro della crocchia, proprio sopra l’orecchio piccolo e tondo. Lungo il collo si inanellavano ciocche paglierine che l’acconciatura non riusciva a trattenere. Tolse un ago dal lato destro e sorrise impercettibilmente. Quel buffo bambino era tornato, lo intuiva dal leggerissimo trepestio sui tappeti smossi.

I contrasti arricchiscono e modulano il tono de Il principio della Terra, sono il motore dello sgomento e della significatività narrativa; la si potrebbe definire una storia con la S maiuscola quella raccontata da Elena Maffioletti, se non si rischiasse di cadere nel banale, ma è davvero potente il nucleo generativo, l’ispirazione, e l’urgenza.

La cornice del romanzo è reale, solo in parte “travisata” per dare agio alla creatività di librarsi e rivelare connessioni, intermezzi emotivi, descrizioni belle e accuratissime. È il Lago salato d’Aral, tra Uzbekistan e Kazakistan, a fare da cornice alla storia, ad assumere su di sé il ruolo di componente reietta e brutalizzata, la scatola di trasmissione di esistenze reali, o verosimili, e di destini senza identità, che inesorabilmente perpetuano, loro malgrado, il male del mondo.

Scrive Christiana Ruggeri nella prefazione: in cinquant’anni di abusi, il bacino dell’Aral, e quel che ne resta, si è trasformato in uno dei più evidenti disastri ecologici al mondo, una catastrofe causata e voluta dall’uomo: un crimine ambientale, rimasto impunito a livello internazionale. Avvolto da segretezza e mistero. Dal 1960 a oggi, le sue acque si sono irrimediabilmente ridotte dell’80 per cento. E sono portatrici di morte.

Il corso degli emissari dell’Aral, deviato per irrigare le colture intensive del cotone; l’uso scriteriato di fertilizzanti chimici per potenziare i raccolti; gli esperimenti sulle armi batteriologiche, condotti durante il periodo sovietico, dagli anni Cinquanta fino agli anni Novanta del Novecento: sono queste le ingiurie del progresso (nella sua versione travisata) che muovono l’estro letterario, la fine corrispondenza di parole e significati elaborata da Elena Maffioletti, che è scrittrice capace di rendere sulla carta i colori, la percezione fugace, le intemperanze dei sentimenti. Le pagine evocano l’oriente, delizie di gesti e di sguardi, la ferocia degli uomini, la loro redenzione, l’incarnazione imperfetta della purezza: venni alla luce stremato, respinto da un futuro di là da venire, circondato da un gemito sottile e persistente.

È Tohir, ragazzino deforme e seme di un passato glorioso, a custodire il mosaico di vite che travalicano e sfidano il tempo. Osserva ciò che la natura violata gli offre, ponendosi domande forse troppo più grandi di lui, misurando il presente sui parametri di una tradizione altera, che va affievolendosi nonostante il conforto di figure mitiche e la fierezza di chi ha avuto in custodia la terra. Sulla battigia lo scheletro di una nave – di cui il nonno di Tohir era stato comandante – testimonia la mutazione ambientale, la malattia irreversibile del mare, ed è una sorta di totem che irradia il dissenso, l’idea incorruttibile di bellezza. Attorno al ragazzino danzano le figure emblematiche del romanzo, corpi diafani o in cerca di riscatto, vite consapevoli dell’orrore perpetrato, anime ribelli oppure disarmate di fronte alla brutalità del nemico. Esseri umani nel cuore di una mareggiata, fragili o immortali, suscettibili di cambiamento, strumenti che diventano aspirazioni o viceversa. Sulla tavolozza de Il principio della Terra compaiono Anrai, una tessitrice di arazzi capace di intingere il mondo nei suoi fili, due soldati in un avamposto di morte, la giovane Haadiya e un writer solitario, l’anarchico imbrattatore, che mettono in gioco la propria vita per onorare la verità, il dottor Akov e i rimorsi sottopelle, due occidentali in cerca di se stessi, gli amorevoli Umma e Uymar, genitori adottivi di Haadiya e, simbolicamente, di una generazione disorientata. Sono voci che emergono come intarsi sul legno vivo della storia, voci che – come sottolinea Davide S. Sapienza nella postfazione – ci mettono di fronte all’immane dimensione dello “sfondo”, la tragedia ecologica che ci riguarda sempre e comunque, se è vero che della Terra – e del suo principio – facciamo parte anche noi.

Romanzo-inchiesta, romanzo sociale, oppure semplicemente romanzo: l’opera di Elena Maffioletti non corre il rischio di essere etichettata; veleggia, incontra la realtà onirica e inconfutabile, asseconda un flusso sotterraneo e scava nell’intimità del lettore.

La voracità dell’uomo, i celebranti del progresso a tutti costi, e sul ciglio della barricata Tohir, un orfano deforme che sussurra: questa è la mia terra, o ciò che ne rimane.

C’è il destino dell’umanità ne Il principio della Terra, e il gusto, la sensibilità dell’autrice, contribuiscono a modellare letteratura (… pardon) con la L maiuscola.

In dialogo con l’autrice:

Perché hai scelto di parlare di questo disastro ambientale?

Nel 2014 mi sono unita a due amiche che preparavano un viaggio in Uzbekistan. Era una via turistica ancora poco battuta e muoversi all’interno del Paese era meno semplice di adesso. Ci volevano una lettera d’invito, una pianificazione del percorso, un autista accreditato, la ricevuta per ogni sistemazione alberghiera da esibire con il passaporto al momento del rientro in Italia. E soprattutto evitare di venire fermate dalla polizia. Eravamo un trio di donne sole accompagnate da un’autista e spesso durante le soste le guide venivano a chiacchierare e a chiederci le nostre impressioni. Dopo averci incrociato diverse volte, i pochi turisti che in quella stagione viaggiavano sul tratto uzbeko della via della seta avevano cominciato a chiamarci, semplicemente, “le italiane”.

Il destino ha voluto che la nostra prima tappa fosse la repubblica autonoma del Karapalkstan, territorio che contiene ciò che resta, da parte uzbeka, del Lago d’Aral. Lì abbiamo dormito, dopo molti chilometri percorsi in fuoristrada in una perenne tempesta di sabbia, a qualche centinaio di metri dalla riva, sulle prime balze del plateau, in piccole tende montate praticamente in mezzo al nulla. Conoscevo solo per sommi capi la storia del disastro ambientale, ma quei colori resi opachi dalla sabbia che vorticava incessantemente, le onde gracili, gelatinose e poco invitanti (a Nukus, prima di partire, l’addetta alla reception dell’hotel ci aveva preso da parte e sussurrato in uno scarso inglese: “Non toccate nulla!”), il deserto che incombeva tutt’attorno, erano drammaticamente affascinanti. Non potevi fare a meno di sentirti tutt’uno con quel paesaggio, con quella luminosità e quella bellezza da fine del mondo. Come se quel luogo racchiudesse l’inizio e la fine, la storia di tutte le storie da raccontare. E viaggiando man mano in territorio uzbeko, da Khiva a Bukhara, dai villaggi polverosi fino all’oasi di Samarcanda, la ricchezza e il fasto dei monumenti, della cultura, della tradizione, il calore della popolazione hanno cominciato a mescolarsi a quella prima impressione così “drammatica” creando una specie di cortocircuito che conosco bene, perché produce quasi sempre la scintilla che porta alla scrittura. Rientrata in Italia, ho cominciato a documentarmi: ero ancora più curiosa di quando ero partita, come se, dopo aver viaggiato per quel territorio, fosse ora il territorio a viaggiare dentro di me. E così ho incontrato i primi dossier e ho cominciato a capire. E a raccontare, alla mia maniera.

Qual è l’aspetto di questa storia che ti ha colpito maggiormente?

La vicenda dell’Aral costituisce una sorta di compendio, l’esemplificazione concreta di tutti i danni che l’uomo può arrecare all’ambiente che lo circonda. Il Lago, o meglio, il Mare d’Aral è stato fino agli anni 60 del Novecento il quarto bacino interno per estensione del pianeta. Il prelievo dissennato da parte del regime sovietico delle acque degli immissari, l’Amu Darya e il Syr Darya, per l’irrigazione dei campi destinati alla coltura intensiva del cotone in Asia Centrale, ne ha segnato l’inizio della fine. Ancora oggi il Canale del Karakum, in Turkmenistan (1370 km.) preleva e convoglia buona parte delle acque dell’ Amu Darya, il grande fiume che nasce fra le montagne del Pamir e che alimenta il bacino uzbeko dell’Aral. Nella seconda metà del Novecento la scarsa portata dell’acqua non è più riuscita a contrastare la naturale evaporazione: oggi il Mare d’Aral è il fantasma di se stesso, la sua estensione si è ridotta dell’80 per cento. Anche il clima è cambiato, le tempeste di sabbia unita al sale e ai residui dei pesticidi che infestano il territorio sono violentissime e arrivano fino all’Himalaya. Per molti anni la popolazione locale ha sofferto disturbi delle vie respiratorie, tumori, anemie, mortalità neonatale e deformazioni. Per questo ho scelto come voce della mia storia Tohir, un ragazzino deforme nato sulle rive del “Grande Lago”. Ma non è tutto: leggendo e documentandomi, mi sono imbattuta nel memoriale di Kanatjan Alibekov, lo scienziato kazako che negli anni 80 diresse l’installazione per la sperimentazione delle armi batteriologiche posta sull’isola di Vozroždenie, nel mezzo dell’Aral. Fino alla caduta del muro di Berlino lì si testavano agenti patogeni di ogni genere, dalla tularemia alle febbri emorragiche, ai virus potenziati del vaiolo alla peste polmonare. In quei bunker è stato custodito uno dei depositi di antrace più grandi al mondo. Ora tutto questo è in rovina, la base smantellata offre uno spettacolo spettrale ai pochi autorizzati a raggiungerla, rigorosamente bardati di scafandri. Ma la cosa peggiore è che l’evaporazione del lago ha unito l’isola alla terraferma, togliendo al territorio anche l’ultima difesa costituita dall’acqua. Se ci sia stata contaminazione, e in quale misura, non è dato sapere, ma la storia dello stato di salute della popolazione non è rassicurante.

L’uomo non impara dai propri errori, e in quanto alle questioni ambientali non sembra ancora prendere la direzione giusta, qual è la tua idea?

Sono pessimista. L’uomo non impara dai propri errori perché non vuole imparare. Continuiamo a considerarci al centro dell’universo, creatori del mondo in cui viviamo, padroni della natura. Tutto inizia e termina con noi, l’antropocentrismo sarà la nostra fine. E’ chiaro che il progresso porge dei conti da pagare: non si può pensare di produrre energia senza costi per l’ambiente, almeno non oggi come oggi. Vale anche per le auto elettriche (molte centrali sono ancora alimentate da combustibili fossili, carbone compreso), anche per l’alimentazione solare (ci sono sempre delle batterie al litio da smaltire) così come per una moltitudine di oggetti del quotidiano che usiamo e gettiamo in continuazione. Basterebbero dei gesti semplici, per cominciare, e soprattutto basterebbe concedersi dei tempi più lunghi. Per vivere, per guardare, per stare un po’ in silenzio e anche un po’ fermi, ogni tanto, per renderci conto che madre Natura non dipende da noi, ma viceversa siamo noi che dipendiamo da lei. In quest’ottica la prospettiva si rovescia, si capovolgono le priorità, si accetta di porsi dei limiti. Purtroppo, però, non vedo un atteggiamento davvero cambiato, nemmeno con l’esperienza della pandemia. È solo questione di tempo e tutto tornerà come prima.

Abbiamo bisogno di trovare connessioni con la natura, hai una tua visione per questo?

Le connessioni esistono già, dobbiamo solo recuperarle e diventarne consapevoli. Il rumore del mondo – il nostro mondo sempre in fuga – rischia di coprire tutto. Credo occorra cominciare con i più piccoli. E certo non con discorsi ipocriti del tipo: “Vedi che brutto mondo ti lasceremo? Abbiamo fatto tanti errori, ma tu puoi rimediare, tu puoi fare in modo che sia diverso…”. Ho sentito più di un adulto parlare in questo modo. Ma non funziona. L’esempio conta prima di tutto, l’esserci conta prima di tutto, con i piccoli. Essere con loro a sperimentare connessioni, aiutarli a diventare consapevoli di quello che già sanno: siamo tutti parte del creato, ciascuno al suo posto nel grande disegno della Natura. Imparare a conoscere il proprio posto significa anche guardarsi attorno e riconoscere che ci sono altri posti con caratteristiche diverse, tante identità naturali, tanti elementi da scoprire, sperimentare e rispettare. Così si può partire da un sasso per scalare le montagne, da un filo d’erba per esplorare le selve, da una pozzanghera per navigare sui mari, perché tutto è interconnesso. Ogni azione comporta una conseguenza, ogni gesto racconta come stiamo nel mondo. Ci vogliono bravi educatori e genitori forse migliori. Ci vogliono sicuramente tempo e disponibilità, proprio quello che nel quotidiano ci manca. Ma insisterei. Un tempo che non sia sempre e solo segnato dalla misurazione, dalla cronologia, ma piuttosto un “flusso”, una “durata” anche a livello interiore, e dunque un luogo privilegiato da cui guardare il mondo e scoprirsi “insieme”.


ELENA MAFFIOLETTI vive tra Bergamo e l’Abruzzo. Ha pubblicato: Sotto il cielo d’aprile (Baroni, 1999); Le Prigioni del Verde (Baroni, 2003); Il ladro di parole (Fernandel, 2009); Bisclavret – Storia luminosa di tempi bui (con Vittoria Delsere, OGE, 2010); Agorà, in La morte nuda (Galaad, 2013); per la rassegna Le Città Invisibili  (Bergamo, 2014) è autrice della scrittura teatrale Lettere di Caterina da Siena, andata in scena a Bergamo e a Lanciano. Con Infinito edizioni ha pubblicato nel 2018 Il principio della terra – Viaggio sulle tracce del Lago d’Aral. Insieme a Vittoria Delsere ha in preparazione il secondo romanzo della trilogia medievale di Bisclavret,  dal titolo I guardiani di Sabta.

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Viaggio sulle tracce del Lago d’Aral, in un romanzo uno dei maggiori disastri ambientali

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