NEGHENTOPIA | Matteo Meschiari
Exorma Edizioni 2017
Illustrazioni di Rocco Lombardi
Matteo Meschiari osserva una striscia di terra persa nel futuro, dove c’è un Termine per tutti e le specie viventi sono distinte in modo assoluto, come a formare delle caste (Pesci, Uccelli, Mammiferi…).
L’autore mette in scena zoomate profonde, che dalla visione apocalittica, a volo di uccello, si immergono nei dettagli più intimi, granelli di ciò che un tempo è stata la vita. Il romanzo ha una struttura che ricorda una sceneggiatura: ne possiede la forza evocativa, la linearità e alcuni dei suoi strumenti peculiari. Ci sono i flashback, i titoli di testa, l’indicazione di chiudere un capitolo con una dissolvenza, c’è una colonna sonora suggerita al lettore, costituita da vere e proprie gemme musicali (da Patty Smith a Basia Bulat, da Shoenberg a Ernst Reijseger). E come se non bastasse, la potenza visiva di Neghentopia è aumentata dalle bellissime illustrazioni in bianco e nero di Rocco Lombardi, che precisano la narrazione e iniettano nel racconto ulteriore pathos. I due protagonisti della storia sono Lucius, un ragazzino in bilico fra determinazione e prostrazione fisica, e un passero che un po’ gli fa da controcanto, esserino sfuggente rannicchiato in una tasca vicinissima al cuore del ragazzo, mentore che ogni tanto scompare, prende il volo per affermare la propria alterità. I due sembrano indivisibili, due piccoli vagabondi in cammino e in navigazione verso Nord, che si lasciano alle spalle colline, pianure, deserti, altre città fantasma, territori sconfinati che se osservati più attentamente rivelano miseria, quartieri vocianti, lunghe fila di camion sulla strada, il relitto di una petroliera, esplosioni e lo scintillio della polvere che ricade. Si individua in lontananza, dietro al ragazzo e al volatile, un corpo mastodontico e anfibio, una Bestia che non dà tregua e che raffigura, attraverso le sue oscure metamorfosi, il rigore inappellabile della resa dei conti. Lucius non ha pace, è determinato e allo stesso tempo è in fuga da un passato indecifrabile, sembra agire a comando, in base a regole misteriose di assuefazione. Il passero gli rammenta la necessità di “cercare un contratto” e apprendiamo che il ragazzo è un sicario, un assassino che ha come preziosa complice la smemoratezza, l’impossibilità di razionalizzare le ragioni dell’odio. La meta finale del viaggio è Neghentopia, una regione desertica in capo al mondo, che ha a che fare con il presente e con un futuro in dissolvenza, orizzonte nero e implacabile come una venatura di inchiostro. Neghentopia è l’ultima missione da portare a termine: a Lucius il compito di eliminare il padrone del mondo, forse perché tutto deve finire. Forse perché tutto l’orrore possa ricominciare. In Neghentopia c’è la vastità del pianeta e le parole di chi osserva e prova a raccontarne la devastazione. Le paure del ragazzo sono lo sgomento soffocato dalle macchinazioni dei potenti, gli svenimenti che accusa – temporanei annullamenti della coscienza – rivelano qualcosa delle nostre profondità e del corto circuito in atto fra natura e progresso tecnologico.
Trabocca di immagini, dolci o spettrali, la scrittura di Meschiari, e ognuna di esse è una miniatura incandescente, che riassume esperienze, giorni di cammino e bivacchi in luoghi stremati (un carapace che si spezza e i resti abbandonati sul fondo di una barca, il passero che becchetta un biscotto di riso da un piattino di porcellana…).
[…] Paesaggi. Terre. Cielo. Come corpi leggeri pesanti che cadono dannati in un vecchio Trionfo della Morte.
Ugakyr, notte.
Una tempesta di sabbia (Hurt dei Nine Inch Nails, la versione cantata da Johnny Cash). Si muove come un’onda di marea. Leggermente meno buia della notte. Immensamente più alta. Un muro di vento e di sabbia si avvicina alla città. Per un attimo sembra fermarsi. Poi è la città a precipitarsi nell’onda di sabbia come un tuffatore d’argilla che abbassa la testa tra i bicipiti.
Ugakyr, quartiere del rame, alba.La città dopo la tempesta di sabbia. La stazione dei camion. Veicoli che vanno e vengono a centinaia. Lavoratori che salgono e scendono dai camion. Un asino. Un uomo che lo tiene per una corda. Attraversano il piazzale affollato. In mezzo alle macchine e agli uomini l’asino sembra venuto da un altro mondo. Qualcuno lo guarda. Poi ritorna ai suoi affari. Noi lo vediamo sparire tra la folla. Le sue orecchie. Sparite.
Incontro con l’autore:
Protagonista di Neghentopia è Lucius, un ragazzino-killer in cammino su territori in rovina, dentro un futuro imprecisato che però in qualche modo ci appare probabile, forse rintracciabile nelle distorsioni del presente. Chi è Lucius? Quali sono le ragioni del suo viaggio verso Neghentopia?
Neghentopia è un libro che sviluppa in chiave narrativa una serie di preoccupazioni già presenti nella mia scrittura. Mi riferisco ad Artico nero (Exòrma 2016) e Geoanarchia (Armillaria 2017). La dissoluzione ambientale. Il capitalismo 2.0. Il colonialismo dell’immaginario. Ma c’è qualcosa di più. Nel racconto Avorio rosso – che è l’ultimo capitolo di Artico nero – ho raccontato la storia di un ragazzino che viene venduto dal padre a un cercatore di zanne di mammut. Il piccolo schiavo fa una vita d’inferno ma alla fine sembra emanciparsi. Liberatosi dal suo aguzzino si inoltra in una terra così a Nord da ritrovare lassù una specie di armonia selvatica. Vive nei paesaggi. Si dissolve in essi. Ma è solo illusione. Alla fine si sveglierà e l’incubo ricomincerà da capo. Neghentopia è un lavoro che mi aspettava da qualche anno ma è stato Avorio rosso a farmi trovare la voce giusta e a darmi una storia da sviluppare su un’altra lunghezza narrativa. Il tema di fondo – la “parabola” se vogliamo – è quella del neoliberismo odierno. Slavoj Žižek parla di capitalismo zombie. Io parlerei piuttosto di neoliberismo cannibale: un sistema economico che per conservare una manciata di privilegi sta cannibalizzando il futuro delle prossime generazioni. Un padre che fa le cose peggiori al proprio figlio pur di garantirsi un effimero benessere qui e adesso. Ecco. Lucius è uno di questi figli violati. Un piccolo sicario guidato da un oscuro ordine monastico che tiene i fili di un mondo ormai ridotto in polvere. Un burattino senz’anima – proprio come Pinocchio – che viene accompagnato da un minuscolo passero in paesaggi apocalittici senza speranza. O quasi. Il titolo Neghentopia viene da qui e da qui spunta la meta del viaggio. Neghentopia è una “parola macedonia” come “smog”. È la fusione di “neghentropia” e “utopia”. Un luogo dove l’entropia e la negatività del mondo subiscono inspiegabilmente un’inversione di segno. Una specie di terra promessa dove però il piccolo Lucius sarà chiamato a compiere un ultimo atto terribile.
[…] Lucius e il passero. In volo sui labirinti della mente per lasciare a terra tutte le dialettiche del pensiero e librarsi come anime in caccia nelle terre dell’assurdo e del contraddittorio. Ma poi torniamo ai piedi. I piedi sul terreno. E ci piace questa cosa. Il terreno. Che ci salva dalla mistica e dal sovrasenso. Che lascia le storie lì dove sono. Nel fango. Nella pioggia. Nel labirinto elementare di ciò che accade.
Immagino che i luoghi attraversati da Lucius, insieme a un passero che in alcuni momenti ci ricorda appunto il grillo parlante di Pinocchio o la volpe del Piccolo Principe, corrispondono a delle aree del mondo che hai osservato e studiato durante i tuoi viaggi. Quali di questi luoghi ti hanno maggiormente colpito e ispirato nell’ideazione di Neghentopia?
Ormai – come quasi tutti – viaggio davanti a un computer. Ci sono luoghi che vorrei moltissimo andare a vedere. Ci sono popoli che vorrei moltissimo studiare. Ma oggi l’antropologia e la geografia sono tornate a essere discipline vittoriane: solo i figli cadetti di ricche casate aristocratiche hanno fondi sufficienti per viaggiare veramente e fare ricerca sul campo. Magari esagero ma quello che voglio dire è che da tempo mi sono rassegnato all’idea – molto letteraria e poco scientifica – di ignorare deliberatamente Wittgenstein: come antropologo e come autore scrivo solo di quello che non so. Ciò detto ci sono luoghi nel mondo – specialmente in Asia e nell’Artico – che sono già la Terra come sarà. Una specie di Paleofuturo o Pleistocene prossimo venturo in cui il sistema economico centrale è crollato e piccoli gruppi umani rimasti isolati hanno imparato a sopravvivere attraverso una specie di bricolage tecnologico. La Grande Era del Riciclo e del Riuso. Accade adesso. In Siberia. In Mongolia. O nell’Africa subsahariana. Nelle favelas del pianeta. Là è come se l’Apocalisse ci fosse già stata. Più che a Blade Runner o a Interstellar i luoghi di Neghentopia sono ispirati al quarto mondo di oggi.
Sorprende nel tuo libro la molteplicità di riferimenti narrativi e di metodo: Neghentopia può essere letto come un noir, un reportage poetico, una sceneggiatura, un diario di viaggio… L’ibridazione sembra essere una costante del tuo percorso di narratore e saggista. Come sei arrivato a elaborare questa personale forma di scrittura?
Il libro-feticcio che ho tenuto sulla scrivania durante la scrittura di Neghentopia è la sceneggiatura di Fitzcarraldo di Werner Herzog. Un libro breve e luminoso. Un fulmine. Ma non bisogna aspettarsi il tradizionale script cinematografico. Herzog segue una vena autoriale romantica e ironica che va ben oltre i dialoghi sceneggiati e il “visibile” sommario delle descrizioni di ambiente. È un esperimento letterario ibrido che suona da anni nelle mie orecchie. Poi sulla scrivania c’era anche La strada di McCarthy. Ovvio no? Perché come si fa a scrivere un testo in primo grado sul dopo Apocalisse oggi? Per me dopo McCarthy è impossibile. Ci vuole molta presunzione e il rischio di scrivere banalità è altissimo. Così ho pensato che proprio la banalità doveva essere la chiave di volta del libro. Ogni scena e ogni dialogo è una citazione cinematografica. Un déjà vu preso a colpi di cucchiaio da tutto il minestrone su carta e su pellicola generato negli ultimi trent’anni dall’industria mediatica apocalittica. Fata Morgana di Herzog o Stalker di Tarkovskij sono riferimenti colti. Invece c’è tutto il sottobosco Blockbuster e B-Movie che ho saccheggiato – divertendomi un sacco – per costruire praticamente ogni pagina del libro. Da The Great Wall con Matt Damon al penultimo Star Wars. Magari qua e là si può trovare una citazione da Agamben o dal Leviatano di Hobbes ma io sono cresciuto davanti alla tv con pane e nutella e Conan di Miyazaki. Il filologo romanzo e il professore di antropologia e geografia sono arrivati dopo e ovviamente non ho potuto cancellarli. Ma Neghentopia è in qualche modo una galleria del mio personale immaginario visuale. Non ho voluto scrivere una sceneggiatura per solleticare un regista americano. Non ho nemmeno voluto scimmiottare McCarthy. Non mi interessava fare letteratura o lanciarmi sulla scena indie con un romanzo tattico. Una volta Werner Herzog ha detto che il film Fitzcarraldo è il suo documentario migliore. Per me voleva dire che a volte nella fiction accade qualcosa che non è più solo fiction e che rovescia sui fatti reali una luce estatica. Ecco. In questo senso Neghentopia non è un romanzo. È un saggio. Il mio saggio migliore. Un racconto certo. Ma anche un saggio implicito sull’incontro tra arti visuali e letteratura.
In Neghentopia sono incastonati, come supporto e precisazione emozionale, i bellissimi disegni in bianco e nero di Rocco Lombardi. Come è nata la vostra collaborazione?
Circa un anno fa sono andato a trovare Filippo Scozzari e gli ho parlato di Neghentopia. Filippo davanti a un piatto di tagliatelle al ragù mi ha demolito il progetto. Volevo tentare una strana reazione alchemica tra il mio testo e la ricerca di uno dei più grandi visionari della scena artistica italiana. Ma Filippo aveva ragione. Neghentopia aveva bisogno di qualcosa di diverso. Ho conosciuto Rocco Lombardi qualche anno fa attraverso uno stupendo graphic novel su Dino Campana (Giuda Edizioni 2014). Poi ci siamo tenuti in contatto e in entrambi è maturata autonomamente l’idea di fare qualcosa assieme. Un giorno ho chiamato Rocco e a Bologna davanti a qualche sidro e qualche Guinness abbiamo iniziato la nostra avventura senza neanche sapere se avevamo un editore. Rocco si è letteralmente lasciato ossessionare dal testo. In brevissimo tempo ha riempito un quaderno di bozzetti stupendi e poi nell’estate più torrida che lui ricordi si è messo a lavorare alle tavole. Rocco è un genio del buio. Sa riempirlo di tagli e fessure da cui passa la luce e lo fa con uno spirito visionario che lo rende un artista davvero unico nella sua generazione. Quello che ho sempre amato nel suo lavoro è la capacità di raccontare il mistero animale. Assieme ai paesaggi notturni è proprio questo che ho tentato di intercettare con Neghentopia. Paesaggi e animali come alternativa apocalittica alla specie umana. Non zombie o vampiri o robot. Ma animali postumani. Poi bisognava pensare al libro-oggetto. E qui è intervenuto Orfeo Pagnani di Exòrma che si è preso un grosso rischio editoriale e ha concepito Neghentopia come un fuori collana. Ha inventato un formato e una gabbia ad hoc che potesse valorizzare le immagini. Sullo sfondo la suggestione dei vecchi testi illustrati dell’Ottocento. Moby Dick. Viaggio al centro della Terra. L’esito è un oggetto curatissimo nella grafica e nei materiali. Bellissimo ma anche perturbante e quasi ostile. Come il candore della balena. Come i laboratori bianchi in cui Lucius affronterà il proprio destino alla fine del libro. Quello che salva tutto – oggetto e testo – sono proprio le immagini di Rocco che pur nella loro oscurità hanno sempre qualcosa che ha a che fare con la luce e la resistenza. Senza le sue immagini Neghentopia sarebbe un piccolo Necronomicon.
Nel libro proponi una sorta di playlist musicale, brani che accompagnano lo svolgersi dell’azione e che delineano paesaggi e dettagli della vicenda. In che modo si è sviluppata questa sorta di colonna sonora? Sono brani che hanno per te un significato particolare o più prosaicamente li ritenevi funzionali al completamento della narrazione?
Mentre scrivevo ascoltavo della musica. Di solito non lo faccio. Cercavo cose un po’ strane. Il punk rock cinese. L’elettronica tedesca anni Ottanta. Ma anche i Catatonia. PJ Harvey. Brian Eno. Frank Zappa. Non sono un musicofilo ma mi visualizzavo le scene del libro come in un film o in un cartone animato e man mano che scrivevo ci mettevo il sonoro. Così ho pensato di giocare sporco e ho deciso di inserire tra parentesi proprio quello che stavo ascoltando. Si potrebbe pensare a un invito all’ascolto. L’ho già fatto in Spazi Uniti d’America (Quodlibet 2012) e in Artico nero. Ma Neghentopia è un libro pieno di trabocchetti. La musica qui non è una colonna sonora ma un grimaldello per rompere il patto di credulità con il lettore. Le parentesi con i titoli dei pezzi interrompono fastidiosamente il flusso narrativo. Riportano il lettore fuori dal testo. Gli dicono “ehi guarda che qui non si fa sul serio”. Per questo stesso motivo ho deciso di mettere ogni tanto delle frasi irritanti del tipo “e adesso proviamo un sentimento indefinito” oppure “questa cosa ci fa temere per Lucius”. È come se volessi imporre al lettore quello che deve sentire. Chi leggeva il manoscritto in progress si scocciava moltissimo di questa cosa. Vuoi dirmi tu cosa sentire? No. Voglio portarti fuori dalla fiction. Voglio che tu ti senta gettato in una squallida sala cinematografica di provincia. Perché? L’idea era aggiungere alla storia un supplemento di claustrofobia in grado di continuare anche a libro chiuso. Questo dare istruzioni per l’uso e obbligare il lettore a vedere unicamente ciò che dico io senza lasciare nemmeno un po’ di spazio alla sua immaginazione è per me la logica forte del libro. Trasformare il lettore in spettatore passivo. Come Alex DeLarge di Arancia meccanica quando viene ricondizionato… Ovviamente questa cosa non piace neanche un po’. Ma a me non interessava piacere.
Nell’ultima pagina del libro ricompare un barattolo con dentro tre semi. Forse non germineranno, o forse sono il simbolo di una possibile rinascita della Terra. Quello di Neghentopia è un finale felice, oppure privo di luce, o è un finale lasciato in sospeso, che interroga la sensibilità del lettore?
Non lo so. Non so come rispondere. Una volta ho terrorizzato Orfeo Pagnani dicendogli che avrei iniziato tutte le presentazioni del libro facendo spoiler sul finale. Perché per me la fine non è importante. […] Lucius. Sta guardando un barattolo di vetro con dentro tre semi grandi come una mandorla. Sull’etichetta c’è l’immagine di un albero. Lucius guarda l’albero come se non capisse cos’è. Gira il barattolo tra le dita. Guarda. Si decide.Poi mi sono comunque morso la lingua. Diciamo però che per natura sono così pessimista che alla fine devo dire di no: nessun lieto fine. Come avevo fatto in Artico nero anche qui non voglio rassicurare o dare speranza. Voglio fare paura. Poi però alle presentazioni succede sempre qualcosa di strano perché le persone capiscono che Neghentopia è un libro politico e dimenticano la storia e immancabilmente qualcuno prende la parola e mi chiede se alla fine c’è una luce in fondo al tunnel. No dico io. È una storia disperata. È un viaggio al termine della notte e dopo la notte c’è ancora la notte. Una volta Rocco Lombardi mi ha scritto di sentirsi quasi in colpa per aver illustrato un libro così oscuro. Voglio davvero consegnare questa massa nera a chi mi sta davanti? Ma poi mi ha anche detto che è necessario. Perché qui dobbiamo svegliarci. Sempre Žižek ha scritto in questo inquietante 2017 che dobbiamo finirla di lavarci la coscienza mangiando biologico o facendo la raccolta differenziata o andando in bicicletta. Non solo tutto questo non salverà il pianeta ma ci fa addormentare nell’oppio della buona azione compiuta. Dobbiamo svegliarci e avere paura perché si preparano tempi durissimi. Come dicevo l’Apocalisse noi ce la vediamo al cinema e la esorcizziamo culturalmente ma in certe parti del pianeta è già arrivata. Quindi no. Direi di no. Neghentopia va proprio a finire male. Poi però succede sempre quella cosa lì con i miei libri patologicamente catastrofisti. Che le persone ci sentono dentro molta speranza. Forse perché non riesco del tutto a cancellare il fatto che l’uomo è anche capace di bellezza.
Da Papa Francesco con la sua enciclica Laudato sì’ alla (perdonami l’accostamento) star hollywoodiana Leonardo Di Caprio, autore del documentario Before the Flood (Punto di non ritorno), molte istituzioni e personaggi influenti hanno voluto porre l’accento sulla necessità di giungere a una “conversione ecologica globale”, in grado di contrastare le architetture planetarie di governance incentrate sul depauperamento delle risorse naturali e su forme sempre più pervasive di sfruttamento e di riduzione in schiavitù. Eppure queste voci, potenzialmente in grado di suscitare notevole risonanza, non sembrano promuovere una reale svolta culturale e politica. Qual è il tuo pensiero in proposito?
Che bisogna prepararsi. Bisogna fare un libro dove si spiega con sole figure come si scuoia un coniglio o come si costruisce un flauto o come si fabbrica un tangram da un pezzetto di cartone. Perché i nostri figli e i nostri nipoti non avranno più i cellulari o Google e non sapranno come fare a macellare e cuocere un animale o come far giocare con niente i propri cuccioli. Un libro di sopravvivenza dell’immaginario soprattutto. Durante l’Era glaciale ciò che davvero ha salvato i nostri antenati dall’estinzione non è stata la tecnologia ma il fatto di dipingere animali sulle pareti di una grotta. Quegli animali non erano – come banalmente si dice ancora – delle sagome per propiziare la caccia. Erano mondi alternativi. Erano dei “come se”. Delle utopie. Dipingendoli e ammirandoli l’uomo ha tenuto duro perché aveva qualcosa in cui vedere una specie di paesaggio alternativo. Dicevo che Neghentopia è un saggio travestito da romanzo. Una trappola. Una presa in giro del cinema. Un’allegoria politica per immagini. Una violenza deliberata al lettore. Ma devo ammettere che volevo anche che funzionasse come racconto. E visto che su queste cose ho ancora molto da imparare ho chiesto aiuto a un editor d’eccezione. Michele Vaccari mi ha insegnato un sacco di cose. A fare sul serio. A non accondiscendere troppo al Postmoderno. A starci in primo grado. Allora l’ho fatto nelle descrizioni di paesaggio. Almeno lì ho fatto sul serio. Perché per me il paesaggio è proprio la chiave di quella svolta culturale e politica di cui parli. Il paesaggio è la cartina al tornasole di quello che stiamo facendo al pianeta. Gode di evidenza. Parla senza parlare. Perché il paesaggio non è solo quello dei parchi nazionali della mente. Quello bello e pulito da Sogno di una notte di mezza estate. Ci sono anche paesaggi Macbeth e paesaggi Re Lear. Questi paesaggi li ho messi in Artico nero e li ho spinti ancora più in là in Neghentopia. Ovviamente non credo di poter cambiare le cose scrivendo paesaggi. Ma è la mia personale tattica di resistenza. I paesaggi sono i miei animali privati dipinti sulle pareti della grotta. E forse i paesaggi della terra con quello che ci dicono di noi potrebbero essere gli animali nella grotta di un’umanità sul bordo dell’abisso. Forse il grido dei paesaggi potrebbe svegliarci. Forse. Non lo so.
L’intera soundtrack di Neghentopia su YouTube
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qui su ZEST è possibile leggere anche la recensione ad Artico Nero (Exorma 2016) e relativa intervista a Matteo Meschiari; la recensione a Geoanarchia (Armillaria 2017) e un estratto .
Note biografiche:
Matteo Meschiari (Modena, 1968) insegna antropologia e geografia all’Università di Palermo. Studia il paesaggio in letteratura, la wilderness, il camminare, lo spazio percepito e vissuto presso varie culture di interesse etnografico. Ha pubblicato le sue ricerche con Sellerio, Liguori e Quodlibet. Nel 1997 ha fondato lo Studio Italiano di Geopoetica, affiliato all’Institut International de Géopoétique, creato dal poeta scozzese Kenneth White. Scrive testi di saggistica, narrativa e poesia.
Note al testo e domande a cura di Paolo Risi,
Le citazioni sono pubblicate grazie alla concessione di casa editrice e autore. Le immagini sono illustrazioni di Rocco Lombardi, tratte da “Neghentopia” .
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